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ROMA – Dietro un uomo, tante vite. Philippe Halsman è stato uno dei più famosi fotografi del Novecento. Alle celebrità che fotografava per lavoro chiedeva di fare un salto. A quasi a voler uscire dal convenzionale per catturare la loro anima giocosa. E così sono passati alla storia i “salti” di Dalì, Chagall, Marilyn Monroe, Grace Kelly, ma anche quelli di Oppenheimer, Steinbeck e Nixon. Un gioco per placare le ferite del passato? Forse.
È il settembre del 1928 quando, durante un’escursione sulle Alpi tirolesi, un dentista ebreo cade in una scarpata. Il figlio – il futuro fotografo Philippe Halsman, allora studente in ingegneria – corre a chiedere aiuto ma quando torna con i soccorsi il padre è morto, ucciso da alcuni colpi alla testa incompatibili con una caduta. Il giovane viene condannato per aver ucciso il padre e inizia un processo ingiusto, in un clima intriso di antisemitismo con il nazismo che inizia a farsi strada, che sarà ricordato come “l’affare Dreyfus austriaco”. La storia è raccontata – in una forma un po’ autobiografica e un po’ romanzata – nel libro “La teoria del salto” (Minimun fax, 2025, 20 euro) scritto dallo psichiatra Corrado De Rosa.
Sono molti gli intellettuali dell’epoca che si mobilitano in difesa del ragazzo. Da Albert Einstein a Sigmund Freud fino a Thomas Mann. Voci che sottolineano le incongruenze delle indagini e l’assenza di un movente. Philippe, graziato dopo due anni di carcere, vuole solo dimenticare. Vola a Parigi, cambia nome e diventa uno dei fotografi più conosciuti al mondo. Le sue fotografie sono ritratti dell’anima, comparsi su 101 copertine della rivista “Life”. E poi c’è quel “salto”, quel modo di approcciarsi ai suoi soggetti che ancora oggi strappa un sorriso, diventando il tratto distintivo di un uomo diventato grande troppo in fretta.
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