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ROMA – “Un Paese da cui scappano ancora più giornalisti e chiudono ancora più media. Insomma, il Paese più chiuso del mondo”. È questo l’Afghanistan del prossimo futuro, quello sempre più compiutamente a guida talebana, secondo Yaser Abrar, già presentatore di punta dell’emittente di notizie Tolonews, da alcuni mesi esule con la famiglia in Turchia, nella capitale Ankara.
In un’intervista con l’agenzia Dire il cronista ricorda di aver lasciato il Paese a metà dello scorso luglio per raggiungere per alcune settimane i suoi cari, che in Turchia si erano trasferiti ad aprile a fronte del peggioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan e delle sempre più pressanti minacce ai giornalisti.
“All’epoca non sapevo che non ci sarebbe stato ritorno”, dice Abrar. Il 15 agosto, infatti, le milizie talebane fanno ingresso nella capitale Kabul e il giorno dopo proclamano un emirato islamico, trasformando una repubblica con una storia di 20 anni, nata all’indomani dell’invasione militare condotta dalla Nato nel 2001, in una parentesi fra due compagini governative capeggiate dai miliziani. C’erano infatti loro al potere a Kabul, forti di un conflitto civile vinto cinque anni prima, quando i militari americani decisero di attaccare sulla scia degli attentati alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001.
Pochi giorni dopo la presa del potere, giunta al termine di mesi di combattimenti, di terreno guadagnato provincia per provincia sotto gli occhi di una stampa internazionale presa in controtempo, il portavoce del talebani Zabiullah Mujahid organizza una conferenza per parlare ai giornalisti. Abrar ha già avuto modo di trovarsi faccia a faccia con il responsabile della comunicazione dei talebani poche settimane prima, a fine giugno, negli studi di Tolo, emittente nata a Kabul nel 2010 e tra i più seguiti nel Paese.
“Mi contattò l’allora vice direttore Khpolwak Sapai, attualmente a capo del canale, per dirmi che Mujahid si era proposto per un’intervista e che non la si poteva rifiutare”, ricorda Abrar. All’epoca dei fatti, spiega il giornalista, “già 100 distretti erano stati sottratti dal controllo del governo” e “sempre più persone chiedevano se Kabul fosse prossima a cadere”.
Il cronista inizia l’intervista con la convinzione che lo ha accompagnato fino a quel giorno e che lo ha sempre spinto a rispondere senza indugi a ogni suo interlocutore in ansia per le sorti della capitale: “Abbiamo un esercito composto da 300mila persone, se due terzi cadono un terzo è comunque pronto a difendere la città, non cadrà nelle mani dei talebani in tempi brevi”. Dopo un’ora e sette minuti di colloquio con Mujahid, Abrar cambia idea: “La presa della capitale è vicina”, ricorda di aver pensato tra sè e sè.
L’audio di quell’intervista non verrà pubblicato e solo il testo “uscirà in sordina pochi giorni dopo” evidenzia l’ex presentatore. Il dado sembra però definitivamente tratto e le cronache dei giorni seguenti confermano i timori di Abrar.
Ora il giornalista riferisce di essere “in contatto costante con cronisti in Afghanistan” e di ricevere informazioni che dicono di un Paese “dove le condizioni di lavoro sono molto dure e le pressioni e le minacce dei funzionari talebani continue”. Per riassumere il concetto Abrar riporta una frase pronunciata da un dirigente dell’intelligence dell’emirato a un suo collega: “Chiunque non aderisce agli interessi nazionali verrà messo in prigione”.
A fare da contesto c’è anche una crisi economica molto dura, ma la repressione “è forte e non si limita a colpire i giornalisti, puntando dritto anche verso tutti i dirigenti del settore dei media con ricadute ancora più estese”, sottolinea l’ex presentatore di Tolo. La speranza potrebbe essere quella di lasciare il Paese, ma rispetto a questo Abrar denuncia un sistema segnato dalle “inefficienze delle organizzazioni internazionali che se ne stanno occupando”, dove forti sono i rischi di “disuguaglianze e manipolazioni a favore di chi ha più soldi e conoscenze”.
Secondo l’ex presentatore, “questi enti non hanno un criterio per selezionare le persone da trasferire fuori dal Paese e si affidano a liste redatte dai dirigenti dei media”. Un procedimento, però, che permetterebbe a chi vuole di “dare la precedenza ad amici e familiari, spesso catalogati come giornalisti anche se non lo sono” ma anche di dar luogo a “ripicche e vendette personali”. Il risultato, accusa Abrar, è che “persone che hanno definito i talebani ‘terroristi’ per anni, ora ricevono delle mail in cui gli viene notificato che ‘la loro vita non è a rischio'”.
Anche lasciato il Paese però, come successo all’ex giornalista di Tolo e a migliaia di persone durante i giorni che hanno seguito la presa del potere da parte dei talebani, spesso grazie a voli di evacuazione condotti dai Paesi Nato, la situazione può essere dura. “Le stranezze politiche degli ex amici dell’Afghanistan ci fanno temere un riconoscimento del governo talebano che potrebbe arrivare da un giorno all’altro”, anche “con rischi di rimpatrio per chi vive fuori”, riferisce il cronista. “Al momento, da quello che so, in Turchia vivono 40 giornalisti”, dice Abrar. “Ankara continua a incrementare i suoi rapporti diplomatici con i talebani, mentre so per certo che a ex esponenti della Repubblica che vivono qui viene detto di astenersi dal commentare la politica afghana”.
La paura di essere espulsi e di tornare nelle mani dei talebani “c’è”, ribadisce Abrar. Che conclude: “L’Afghanistan è un incubo per i giornalisti. A guidare l’interpretazione degli eventi è rimasta solo la paura”.
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