BOLOGNA- La pandemia, con il massiccio ricorso delle aziende allo smart working, ha consentito a molte neo madri di restare al lavoro. Il ritorno alla normalità e al lavoro in presenza ha provocato una nuova impennata delle dimissioni delle donne con figli. Anche in Emilia-Romagna, dove nel 2021 hanno lasciato il loro impiego, per lo più per accudire la prole, 3.372 lavoratrici. Di tutt’altro segno le scelte dei loro compagni: 1.774 le dimissioni volontarie di uomini convalidate dall’Ispettorato del lavoro, la metà di quelle presentate dalle donne e quasi tutte motivate dalla possibilità di un lavoro migliore e di fare carriera.
“Un quadro desolante”, ammette Sonia Alvisi, consigliera di Parità della Regione. Nel 2021, nel complesso, in Emilia-Romagna sono state 5.146 (+23%) le dimissioni dal lavoro e le risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri, il 9,8% dei 52.436 casi a livello nazionale. Nel 2020 erano state 4.174 in regione. “La nascita di un figlio ha un impatto significativo e duraturo sulle scelte e le prospettive della madre, ma non su quelle del padre, aprendo un divario tra i percorsi lavorativi e i trend reddituali che non si colma nel tempo. Anche in Emilia-Romagna è amaro constatare come per una donna avere un figlio riduca sensibilmente le probabilità di continuare a lavorare e, per chi continua, le prospettive di carriera, al contrario di quanto avvenga per un uomo”, osserva Alvisi.
Nello specifico, dei 5.146 casi, 4.980 riguardano dimissioni volontarie (il 96,8% del totale), di cui 3.282 di donne, 69 dimissioni per giusta causa (l’1,3% del totale), di cui 50 di donne, e 97 risoluzioni consensuali (l’1,9% del totale), di cui 40 di donne. Come spiegano le donne la decisione di gettare la spugna? Per lo più (hanno risposto così in 1.424) per la difficoltà a conciliare il lavoro con la cura del bambino, ma anche per l’assenza di parenti che possano dare una mano (1.057). Sono 764 le donne che hanno evidenziato un’inconciliabilità legata all’azienda e all’organizzazione del lavoro.
Il 79,9% delle dimissioni volontarie riguarda lavoratori italiani. Anche nel 2021 i provvedimenti riguardano in maggioranza persone nella fascia d’età che va dai 34 ai 44 anni (2.164 casi), il 42% del totale, mentre il 35,2% dei casi riguarda soggetti tra i 29 e i 33 anni. Poi, fra i più giovani, nella fascia d’età tra i 24 e i 28 anni, i recessi sono solo il 2,4% del totale. Nell’ultimo biennio, però, si registra una tendenza all’aumento dei recessi per entrambi i generi nella fascia compresa tra i 3 e i 10 anni di servizio: 1.931 casi (1.571 nel 2020).
Il maggior numero delle dimissioni riguarda persone con un solo figlio o in attesa del primo (pari a 3.105 casi, il 60,34% del totale), circa la metà per chi ha due figli (1.622 casi, il 31,5% del totale), decisamente inferiore, ma in aumento rispetto all’anno precedente, la percentuale delle persone con più di due figli (419 casi, l’8% del totale), del tutto marginali i casi durante la gravidanza. Per quanto riguarda l’età dei figli, a differenza del passato, sono più numerosi i genitori dei bambini con età da uno a tre anni, 39,7% del totale, rispetto a quelli con figli inferiori all’anno, 34,6% del totale. Quasi l’80% delle persone che chiedono il recesso lavorativo hanno un contratto full time, mentre il personale part time è quasi esclusivamente di genere femminile (996 donne contro 74 uomini).
In numero inferiore rispetto al passato sono le richieste di passaggio al part time o di flessibilità: 139 (164 nel 2020), con prevalenza femminile. In sensibile aumento l’accoglimento di queste richieste, che supera il 40%, la percentuale più alta registrata negli ultimi anni. “La pandemia ha abbassato i numeri delle convalide delle dimissioni, poiché la possibilità di lavorare da casa ha consentito la cura dei figli senza la necessità delle dimissioni. La cura della prole è la ragione principale per cui padri e madri ricorrono alle dimissioni”, conferma Aniello Pisanti, direttore dell’Ispettorato interregionale del lavoro del Nord-Est. “Sono cresciuti, però, anche i casi in cui le aziende vengono incontro alle esigenze dei lavoratori garantendo la flessibilità dell’orario, il part-time e continuando a utilizzare lo smart-working”, aggiunge Pisanti.
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