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Violenza sulle donne, appello alla maggioranza per riaprire la discussione sul Codice rosso

Se ne è parlato alla tavola rotonda coordinata da Sandra Zampa nell'ambito degli approfondimenti di DireDonne

Pubblicato:20-06-2019 14:51
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:26

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ROMA – “Si riapra la discussione sul Codice Rosso perché ci sono pareri autorevoli, a partire da quelli di magistrati, del Csm e delle tante associazioni di donne, che ci stanno dicendo che si tratta di un’occasione importante, per le norme significative che ci sono dentro – come il revenge porn – ma ce ne sono altre che non vanno nella giusta direzione”. È l’appello lanciato alle forze di maggioranza dalla presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente, nel corso della tavola rotonda coordinata da Sandra Zampa nell’ambito degli approfondimenti di DireDonne e dedicata oggi al tema della violenza sulle donne.

Ospiti del confronto anche Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus, e Concetta Gentili, avvocata civilista alla guida del Gruppo tecnico avvocate di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza.


“In particolare sul Codice Rosso- spiega Valente- occorre fare attenzione alle norme propaganda e manifesto come i tre giorni, perché non è detto che siano una soluzione positiva per le donne”. Il rischio che si corre nel prevedere che il pm ascolti la donna entro tre giorni è quello della “vittimizzazione secondaria”, che si può verificare “se si chiama una donna contro la sua volontà, a ridosso di un interrogatorio fatto dalla Polizia giudiziaria, in un momento in cui magari non se la sente”, configurando l’intervento più come un ostacolo che come un aiuto. Occorre “riaprire la riflessione”, per Valente, perché “siamo alla seconda lettura in Senato”, ancora in tempo per attuare le modifiche richieste.  E proprio di vittimizzazione secondaria si è parlato stamattina nella riunione della Commissione sul femminicidio perché “troppo spesso la donna vittima rischia di essere messa sotto processo”, un processo “alla sua credibilità ed attendibilità. Stiamo cercando di aggredire il nodo dei consulenti tecnici, ai quali i magistrati rischiano di affidarsi in maniera troppo automatica”.

A mancare, spesso, è il “dialogo tra percorsi penali e civili- sottolinea l’avvocata Gentili- e spesso anche tra percorsi civili e minorili”. Meccanismi alla base di quanto successo di recente in Veneto, “dove un giudice civile- racconta Valente- nonostante la sentenza di primo grado che condannava l’autore di violenze contro la moglie, ha deciso affidare i figli all’uomo violento”.

È la formazione la ricetta per uscire da questo cortocircuito secondo Lanzoni: “Troppo spesso le situazioni degenerano perché le donne non si rivolgono alle giuste professionalità- dice-, ma ad avvocati non specializzati e a psicologi che non le seguono adeguatamente, una serie di figure del privato sociale che assieme al pubblico dovrebbero essere pronte”, ma spesso non lo sono. Fondamentale, dunque, “costruire un tavolo con centri antiviolenza e con tutte le altre professionalità” per favorire lo scambio “di buone pratiche” e per armonizzare quelle esperienze dal basso che funzionano bene sui territori “ma non fanno sistema” a livello nazionale, generando disparità nella geografia regionale.

“Sono d’accordo che i professionisti che si avvicinano alla violenza debbano essere formati- osserva l’avvocata Gentili- ma questa formazione deve essere condivisa e portare ad una omologazione dei linguaggi” attraverso “tavoli nazionali e locali, dove ci si possa confrontare sulle buone prassi”.

Non è mancato un riferimento al clima politico italiano, che, ragiona Gentili, “vuole negare la violenza, il gap che esiste tra uomini e donne e che, al di là dell’enunciato della parità di genere, fa registrare ancora una grande differenza, su cui poi si innesta la violenza”.

E mentre Zampa evoca “il sovranismo di genere” come “visione del mondo” che si sta tentando di restaurare, Valente commenta: “Il clima che si respira oggi è fortemente regressivo e tenta di ricostruire un modello in cui la donna è soccombente. Non mi riferisco solo al Ddl Pillon- chiarisce- ma anche alla proposta di mettere in discussione la legge Merlin, le mozioni a livello comunale sui consultori e la 194, il tema, riaperto recentemente dalla Cgil, della gestazione per altri”.

“Molto si può fare abbandonando il terreno esclusivo della repressione- avverte la presidente della Commissione sul femminicidio- Enunciare la castrazione chimica parla alla pancia delle persone che sono giustamente arrabbiate, ma non può essere questa la risposta delle istituzioni perché non risolve il problema e riconduce all’idea del raptus. Dobbiamo intervenire sulle giovani generazioni, spiegare che l’amore non è sopraffazione. Le istituzioni possono fare molto, ma devono leggere bene il problema per trovare le giuste soluzioni”.

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