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Addio a Calabrò, il medico scalzo che curava in container

Il “medico dei poveri” di Cinecittà, è morto per un arresto cardiaco nell'ospedale in cui lavorava da tanti anni come cardiologo

Pubblicato:19-10-2015 14:29
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 20:39

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ROMA – Era un “medico scalzo”, che curava i più poveri e dialogava con tutti, parrocchia e centri sociali, passando per le istituzioni. Antonio Calabrò, il “medico dei poveri” di Cinecittà, è morto per un arresto cardiaco nell’ospedale in cui lavorava da tanti anni come cardiologo e in cui da quest’estate era ricoverato, per un grave virus al midollo che i suoi colleghi stavano cercando di curare. Molto conosciuto e amato nel suo quartiere, quello che sorge intorno alla grande chiesa di Don Bosco, a pochi metri dalla Tuscolana, Calabrò non si accontentava di assistere i suoi pazienti in ospedale, ma svolgeva il suo lavoro anche in strada, per raggiungere chi, in un ambulatorio medico o in un ospedale, sarebbe entrato con difficoltà.

Foto di Antonio Marcello (dal sito http://www.shoot4change.eu/)

Foto di Antonio Marcello (dal sito http://www.shoot4change.eu/)

“Mi pare fosse il 2008, quando bussò alla mia porta in municipio e mi chiese se poteva installare un container proprio alle spalle della chiesa di don Bosco, a Cinecittà – ricorda Sandro Medici, allora presidente del X municipio – Non so dove si fosse procurato quel container, mi spiegò che gli serviva per allestire un ambulatorio medico di strada: a noi chiedeva le autorizzazioni, l’allaccio in fogna e le utenze. Gliele concedemmo e si mise subito al lavoro”. In poche settimane, la voce si sparse e fuori dall’ambulatorio “si creava la fila, nei due pomeriggi a settimana che Antonio dedicava a questa impresa”. Un’impresa difficile, complicata, anche dal punto di vista emotivo, perché “questa gente andava da lui e poi spariva”, racconta Medici. “Ricordo quando mi raccontò di una ragazza africana: quando si era presentata nel suo container, era sul punto di partorire. E poi era sparita. Allora Antonio si mise a cercarla e la trovò, finalmente, in una baracca sull’Aniene. La portò al Fatebenefratelli, dove lavorava come chirurgo, e le permise di partorire al sicuro”. Di storie così, chissà quante ce ne sono. E quante ancora ce ne sarebbero, se l’ambulatorio non fosse ormai chiuso da un paio d’anni.

Il container è sempre lì, ma l’attuale amministrazione non ha rinnovato le pratiche burocratiche necessarie per avere le varie utenze. E Antonio se ne rammaricava molto”. Certo, ora non ci sarebbe comunque nessuno a portarlo avanti. “Aveva un gruppo di collaboratori che lo aiutavano, con alcuni di loro aveva dato vita all’associazione Condividi. Ma non erano medici e nessuno di loro potrebbe sostituirlo”. I suoi colleghi, poi, “lo aiutavano perché lui li tormentava: se c’era un caso da approfondire portava lì in ospedale i suoi pazienti ‘di strada’, o riusciva a trascinare nel container qualche suo collega. Ma nessuno si farebbe mai carico della sua impresa”. Eppure, in tanti ancora avrebbero bisogno di questo servizio: “Negli ultimi anni, non si presentavano solo stranieri, ma sempre più italiani. Poi faceva ambulatorio anche nel centro di accoglienza per persone sfrattate, inaugurato durante la giunta Veltroni e ancora operativo, alle spalle dell’ippodromo Capannelle. Avevamo adibito un locale al pianterreno ad ambulatorio e Antonio veniva spesso anche lì. Riusciva a dialogare con tutti: dai ragazzi dei centri sociali ai salesiani della parrocchia: era molto cattolico, ma con la chiesa aveva un rapporto dialogico, a volte conflittuale. Ora, siamo in tanti a piangerlo e a rimpiangerlo: figure come la sua non nascono tutti i giorni”.


 (Fonte: Redattore Sociale)

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