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ROMA – Nessuno tra i test sierologici ad oggi disponibili per la ricerca degli anticorpi per Covid-19 è infallibile: infatti, se i test immunocromatografici possono dare falsi positivi, allo stesso modo il test Elisa fornisce falsi negativi. E’ quanto emerge da uno studio condotto da Altamedica Medical Center di Roma, in via di pubblicazione sull’American Journal of Infectious Diseases, che ha messo a confronto quattro test rapidi qualitativi e il test quantitativo Elisa.
L’indagine ha analizzato i risultati dei test su soggetti risultati positivi ai tamponi (anche se non sempre al primo tampone) con una latenza nota dai 15 ai 60 giorni prima dei test immunologici. Il test Elisa non ha rilevato il valore degli anticorpi nell’organismo dei soggetti. Il raffronto fra test immunocromatografico ed Elisa non coincide sempre, in circa la metà dei casi vi sono discordanze.
“Se è noto che esistono differenze tra i diversi test immunocromatografici, non si sa ancora se lo stesso accade nei test Elisa o Clia- spiega Claudio Giorlandino, ginecologo, direttore Sanitario Gruppo Sanitario Altamedica e direttore generale dell’Italian College of Fetal Maternal Medicine-. Il test immunocromatografico, in grado di dire solo se le immunoglobuline sono presenti o assenti, sembra più sensibile, quello Elisa più specifico. Questo potrebbe stare a significare che il test immunocromatografico può dare falsi positivi ovvero che il test Elisa, in grado di valutare la quantità di anticorpi, fornisce falsi negativi. Dunque, non si può dire quale sia il test migliore. Sono tutti validi, tutti buoni e tutti cattivi, ma esistono comunque divergenze sui risultati. Anche se i metodi Elisa sembrerebbero tecnicamente superiori e più informativi di quelli immunocromatografici, nello stesso soggetto, comparati tra di loro, possono sbagliare. E’ inutile battersi, al momento, in favore dell’uno o dell’altro”.
“Oggi si sente continuamente parlare di validazione dei test diagnostici per Coronavirus. Questo ha generato la convinzione che solo un test validato possa essere utilizzato ai fini della ricerca della presenza del virus o della risposta anticorpale. Non è vero. Si confonde la validazione con la certificazione– osserva Giorlandino-. La validazione è un processo interno ad ogni laboratorio che, per ogni metodica in vitro, deve verificarne la corrispondenza nei confronti di campioni standard (gold standard). Questa validazione, nei laboratori più seri, viene eseguita ciclicamente o, addirittura, ad ogni nuovo lotto che giunge dalla azienda fabbricante. Appare quindi assolutamente improprio, e legalmente impugnabile, il fatto che una Regione ritenga si debba utilizzare un unico test. Stante il fatto che le superiori regolamentazioni europee affermano che tutti i test con certificazione Ce-Ivd possono essere utilizzati in tutti i Paesi europei”.
Le “distorsioni”, secondo l’esperto, riguardano anche la gestione dei tamponi per la ricerca del virus. “Il ministero e le Regioni hanno vietato ai laboratori privati di eseguire il tampone naso-faringeo per il fatto che, se li avessero acquisiti quest’ultimi, i test a disposizione non sarebbero bastati per il Servizio sanitario pubblico. Ciò- sottolinea Giorlandino- ha determinato un’enorme riduzione del numero di tamponi eseguiti e un danno per la salute pubblica. Sorge però una domanda: data l’emergenza, perché non si è data la possibilità anche a tutti i maggiori centri privati e ospedalieri di eseguire i tamponi con il metodo Ruo (Research Use Only)? Ogni laboratorio di alto livello è in grado di costruire il proprio test diagnostico, non sarebbero stati test certificati ma validati. Perché, se si volevano salvare vite con la diagnosi precoce, non si è dato l’ordine ai prefetti di precettare i laboratori privati? Di obbligarli ad allestire kit in house, al massimo rimborsando solo il costo della materia prima? Allo Stato sarebbe costato un decimo e la diffusione sarebbe stata maggiore. Le Regioni ancora non lo permettono”.
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