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Cancro al pancreas, l’oncologo: “I pazienti con Olaparib hanno superato 5 anni”

Lo dice Michele Reni, professore associato di Oncologia dell'Università Vita e Salute e coordinatore dell'area oncologica IRCCS San Raffaele di Milano

Pubblicato:19-01-2023 11:35
Ultimo aggiornamento:19-01-2023 16:44
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ROMA – “La risposta di AIFA nel comunicato dello scorso 11 gennaio è corretta: non c’è un vantaggio statisticamente significativo della quantità di vita, dunque della sopravvivenza dei pazienti con tumore del pancreas che hanno ricevuto Olaparib rispetto al placebo. Ed è altrettanto vero che nei questionari della qualità della vita che sono stati compilati non c’è un vantaggio nel fare l’Olaparib rispetto al non farlo. Questo dato, detto così, sembra mettere una pietra tombale sulla questione dell’Olaparib ma in realtà è opportuno approfondire e spiegarne meglio il senso“. Lo precisa all’agenzia Dire Michele Reni, professore associato di Oncologia dell’Università Vita e Salute e coordinatore dell’area oncologica IRCCS San Raffaele di Milano, dopo che AIFA ha spiegato in un comunicato le motivazioni della non rimborsabilità del farmaco Olaparib per il carcinoma del pancreas nei pazienti BRCA mutati con malattia metastatica dopo che la Dire aveva raccolto la loro preoccupazione attraverso l’associazione Codice Viola.

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Il farmaco ha invece ottenuto la rimborsabilità in Austria, Belgio, Olanda, Francia e Germania.
“In particolare- continua l’esperto- la questione della sopravvivenza è un tecnicismo statistico. Di fatto, per la prima volta nella storia dell’oncologia del tumore del pancreas, abbiamo una sopravvivenza a cinque anni della malattia metastatica che supera il 30% per chi ha ricevuto l’Olaparib come terapia di mantenimento al termine della chemioterapia, rispetto a meno del 20% perché chi non l’ha ricevuto. In altre parole, i pazienti che hanno superato i cinque anni sono il doppio quando sono stati trattati con l’Olaparib rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo”. “In realtà- precisa l’oncologo- un terzo di quelli che hanno ricevuto il placebo hanno poi ricevuto l’Olaparib in un tempo successivo e quindi, evidentemente, questo va un po’ a mascherare la reale differenza esistente tra un gruppo e l’altro”.


“Quindi- prosegue Reni- il punto non è tanto quello di avere, purtroppo, un vantaggio per tutti i pazienti ma certamente c’è un sottogruppo di pazienti, possiamo stimare che in Italia siano circa 30-40 in due anni, che ha un beneficio estremamente duraturo nel tempo per una malattia come questa. Ripeto, parliamo di cinque anni per la malattia metastatica”. Michele Reni rende poi noto che “si tratta di persone piuttosto giovani, con un’età media di 55 anni, perchè chi ha la mutazione è più giovane di circa dieci anni in media rispetto a chi non ce l’ha. Io, ovviamente, non faccio alcuna distinzione tra pazienti, dai 18 ai cento sono tutti uguali. Ma in questo caso si tratta di una fascia di popolazione piuttosto giovane”.

Il professor Reni torna a soffermarsi sulla qualità della vita dei pazienti affetti da tumore del pancreas. “È ovviamente condizionata dal cancro. Nel momento in cui ci riferiamo a pazienti che hanno risposto bene alla chemioterapia per almeno quattro mesi ma la maggior parte aveva fatto sei mesi di chemio per via endovenosa, stiamo parlando di una popolazione che si trova già ad avere una buona qualità della vita, proprio in virtù del fatto che hanno interrotto dopo circa sei mesi la chemioterapia e hanno una malattia che si è ridimensionata grazie alla chemio stessa. Sono, dunque, pazienti che hanno una buona qualità della vita”. “E’ evidente che più di tanto non si può migliorare una qualità della vita già buona per cui, se faccio il trattamento di mantenimento con Olaparib rispetto a placebo non mi posso aspettare un miglioramento- dice inoltre- Ma se questo trattamento attivo raddoppia il tempo che impiega la malattia a ripresentarsi rispetto a chi fa il placebo, mi è sufficiente che la qualità della vita non peggiori, perché vuol dire che sto utilizzando un trattamento che permette al paziente di guadagnare del tempo senza compromettere la sua qualità della vita, ovvero senza che la tossicità di questo trattamento, pastiglie che si assumono per bocca, possa intralciare la vita quotidiana del paziente”.

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“Purtroppo- tiene a sottolineare l’oncologo- queste analisi della qualità della vita dal punto di vista tecnico non tengono conto di un fattore importante: se il paziente del gruppo del placebo ha una progressione di malattia, a quel punto smette di compilare i questionari sulla qualità della vita, mentre il paziente dell’altro gruppo, che sta continuando a fare l’Olaparib perchè non ha avuto progressione, continua a compilare i questionari della qualità della vita”. “Quindi- dichiara- non abbiamo il confronto con la qualità della vita del paziente che ha avuto progressione di malattia, con tutti i sintomi legati alla progressione stessa, e che ha dovuto ricominciare la chemioterapia endovenosa, con tutti gli effetti collaterali provocati dal trattamento. Questo confronto manca ma penso sia intuibile che sarebbe tutto a vantaggio di chi ha continuato la terapia per bocca”.

Per il professore associato di Oncologia dell’Università Vita e Salute e coordinatore dell’area oncologica IRCCS San Raffaele di Milano “non c’è nessun desiderio di fare polemiche con AIFA. Vorremmo trovarci intorno a un tavolo con loro e con persone coinvolte nel tumore del pancreas, per riflettere sul fatto che il valore del farmaco è diverso a seconda che il paziente abbia un tumore della mammella, un tumore del pancreas o un altro tipo di malattia”. “Sarebbe bello coinvolgere anche i pazienti, perchè stiamo parlando della loro qualità e della loro quantità di vita. Chi ha vissuto l’esperienza sulla propria pelle potrebbe dirci come ha vissuto con la chemioterapia e come, invece, con l’assunzione dell’Olaparib. Questa non è una battaglia– conclude Michele Reni- ma una riflessione che ha a che fare con il valore della vita“.

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