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L’intervista a Emanuele Macaluso: “Lavoro, un faro per chi crede nella democrazia”

Conversazione con Emanuele Macaluso raccolta da Giorgio Frasca Polara e apparsa nel volume della Cgil per celebrare il 50mo anniversario dello statuto dei lavoratoria a cura di Altero Frigerio e Roberta Lisi

Pubblicato:19-01-2021 18:00
Ultimo aggiornamento:19-01-2021 18:13
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EMANUELE MACALUSO
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Sei entrato nel Pci in clandestinità e nella Cgil con la Liberazione che in Sicilia era avvenuta già nel ’44. Due anni dopo eri segretario della Camera del lavoro di Caltanissetta, la tua città. E nel ’47, al congresso del sindacato siciliano, sei stato eletto segretario regionale…

“… Su proposta di Peppino Di Vittorio…”


E da allora, per dieci anni, hai vissuto le grandi lotte per la terra, l’eccidio di Portella, le dure lotte degli zolfatari e quelle non meno difficili degli operai dei Cantieri navali di Palermo, solo per citare alcuni momenti chiave della tua esperienza nella Cgil siciliana. Nel rivivere questi momenti, come ti chiedo di fare, immagino che consideri il lavoro come strumento di emancipazione personale e collettiva.

Certo, e aggiungo: il lavoro appunto come faro sicuro per chi crede nella democrazia e nella lotta per il cambiamento. Ripenso, in quella provincia di Caltanissetta, alle epiche lotte nelle miniere, che erano state allagate per colpa dei padroni. Davvero epiche lotte per rimettere in moto le pompe e consentire la ripresa della estrazione e della lavorazione dello zolfo. Le prime manifestazioni di piazza, vietate dagli inglesi, ancora occupanti: a Sommatino molti minatori furono arrestati, e uno di loro fu spedito al confino in Africa. Anzi fu costretto a tornarci: ce lo avevano già mandato i fascisti! Un paradosso emblematico. E ripenso alle caratteristiche esemplari di Caltanissetta, città in relativa buona occupazione e compattezza sociale grazie agli zolfatari (all’inizio ne ero stato il responsabile), agli scarpellini, ai muratori, agli impiegati, ai giovani intellettuali. Ebbene, il “segreto” di quella compattezza sociale era la forte, generale sindacalizzazione: panettieri, mugnai, pastai (la cosiddetta arte bianca), edili, persino i barbieri erano in gran parte iscritti alla Cgil allora unitaria. Proprio Di Vittorio, dopo quel congresso, ne scrisse sull’Unità, citando il nisseno ad esempio di una struttura portante di un centro – il sindacato – animatore di democrazia. E in una zona in cui la mafia la faceva da padrona e la combattevamo tenacemente già dal ‘44.

Già, quando Girolamo Li Causi, il grande dirigente comunista, fu ferito a pistolettate dal capo dei capi della mafia di allora, “don” Calogero Vizzini.

E’ giusto ricordare oggi quel momento drammatico. Li Causi era andato a Villalba per dare una mano alla lotta dei braccianti e dei senzaterra che reclamavano di poter coltivare, in cooperativa, il feudo Miccichè. Proprietari assenteisti erano i principi Lanza di Scalea che avevano come gabelloto – il vero padrone per conto terzi – proprio il capomafia Calò Vizzini. Mommo Li Causi ne fece pubblicamente il nome e il potere, offesa imperdonabile. Allora il boss tirò fuori la pistola, si avvicinò al palco e gli sparò mentre anche i suoi guardaspalle spararono e uno di loro scagliò persino una bomba a mano. Li Causi fu colpito ad una gamba, resterà claudicante tutta la vita, sempre con l’aiuto di un bastone. Ma non cessò per questo di combattere coraggiosamente la mafia sino alla fine dei suoi giorni. E a Santa Caterina, più tardi, la battaglia per l’applicazione della legge Gullo sulle terre incolte si tradusse in una sparatoria con molti feriti. E allora un giovane sindacalista reagì, sparò e uccise uno dei mafiosi. Lo arrestarono e lo trascinarono in giudizio per omicidio aggravato. Lo difese il compagno Terracini, e fu assoluzione piena in Assise: legittima difesa, decise la corte con grande scorno dei padroni assenteisti e del procuratore che lo aveva incriminato. Ecco cosa era allora il sindacato: strumento di affermazione dei diritti e della dignità, a qualsiasi costo. Ed ecco il senso di una considerazione di Peppino Di Vittorio: quando il bracciante non si toglie la coppola davanti al padrone o al mafioso, questo gesto diventa una prova di dignità, una conquista dell’emancipazione.

Facciamo un salto dalla Sicilia più profonda a Palermo. Che cosa accadeva nella “capitale” dell’isola?

Accadeva che la Camera del lavoro fosse tanto forte quanto debolissimo era il Pci. La spinta unitaria del sindacato faceva premio su un tessuto sociale assai degradato (e in cui faceva capolino una nuova mafia, che poi sarebbe stata ancora più devastante di quella delle campagne). Mi torna in mente un episodio di grande significato della forza e del prestigio del sindacato, ancora unitario. Del sindacato dei lavoratori alberghi e mensa era segretario – lo immagineresti? – un monarchico doc, tanto da essere anche deputato (monarchico) alla prima legislatura dell’Assemblea regionale. Ebbene, dismessi gli altri abiti, la sera tornava a fare il suo mestiere di cameriere per servire la clientela all’Extrabar, un locale centralissimo e di gran moda per decenni. Ecco la funzione civile sua e del sindacato.

E che cosa rappresentavano i Cantieri navali, allora la più grande industria della città e della intera regione? Che cosa succedeva là dentro?

Non dimentico che li hai citati sin dall’inizio della nostra chiacchierata, ed hai fatto il giusto. Perché i Cantieri occupavano stabilmente tra cinque e seimila operai quasi tutti specializzatissimi e quasi tutti sindacalizzati. Ricordo che, come nelle miniere del nisseno ci furono scioperi massicci anche per due mesi interi, così ai Cantieri tutto si bloccò una volta per quaranta giorni. Ma, in più delle maestranze stabili, quasi sempre vi lavoravano almeno un altro migliaio di avventizi cui era affidato il compito della pulizia, della riverniciatura, dei lavoretti insomma sulle navi di passaggio. Erano, questi avventizi, i meno sindacalizzati. Sfido io: con il beneplacito e anzi lo stimolo della direzione ma anche con la tolleranza della polizia, la gestione delle loro assunzioni era affidata in toto ad un capomafia, Mariano Equizi. Era lui che stabiliva chi doveva lavorare e chi no, un dominio assoluto.

Cercai di entrare nell’opificio forte del mio ruolo sindacale. Le guardie (armate) me lo impedirono. Allora, con l’aiuto di un paio di compagni, mi arrampicai su un muro di cinta e mi calai dentro i Cantieri. Apriti cielo! Fui denunciato per violazione di domicilio dal direttore generale, Gallo (il padre del più tardi notissimo vignettista Vincino, altra pasta d’uomo). Andai a processo. Il mio avvocato chiese ai giudici che fosse letto l’atto di denuncia, e domandò se ci fosse in calce la cosiddetta delega ad agire dei padroni di allora, i Parodi di Genova. La delega non c‘era, e quindi Gallo non aveva titolo per denunciarmi. Fui assolto. Una lezione che servì a rafforzare, non per mio merito ma per intelligenza dei giudici, il peso e il prestigio del sindacato.

Drammi e valori del Novecento non sono finiti in un cassetto. Sindacati e variegata sinistra: a chi tocca fare che cosa?

Se parliamo del Novecento il sindacato ha dato al lavoratore dignità (ci insisto) e anche potere; e pure la sinistra e un pezzo della Dc, malgrado la sciagura della scissione sindacale e della conflittualità che ne è derivata, anche senza l’unità, hanno saputo dare un sostegno attivo, incisivo, alle lotte dei lavoratori. Per fortuna, e soprattutto per merito dei sindacati, la conflittualità si è sempre più attenuata e si è realizzata, se non l’unità (per cui mi sono sempre battuto, e penso con rimpianto all’esempio dato dai metalmeccanici nel 1969) almeno una intesa. Ma c’è un punto essenziale, dirimente, e non risolto: l’introduzione per legge, nel ‘74, della incompatibilità tra incarichi sindacali e incarichi parlamentari. Sino ad allora il sindacato traeva un sostegno, spesso decisivo, dal Parlamento dove erano (o erano stati) presenti e attivi molti autorevolissimi dirigenti sindacali: i comunisti Di Vittorio, Lama, Bitossi, il socialista Santi, tutti dirigenti massimi della Cgil; e come Pastore e Rubinacci della Cisl; altri ancora.

E’ anche grazie a loro, e comunque al clima della non-incompatibilità, che il compagno socialista Giacomo Brodolini, ministro socialista del Lavoro, poté elaborare lo Statuto dei lavoratori di cui celebriamo ora i cinquant’anni. Un’idea nata negli Anni Cinquanta quando Di Vittorio già rifletteva sulla necessità e l’urgenza di una tutela giuridica del lavoro e dei lavoratori. Ricordo che, purtroppo, il Pci si astenne (che grosso sbaglio!) sul voto del Parlamento che varò lo Statuto, solo perché il governo era di centro-sinistra. Voglio insistere che, sino alla cesura con l’incompatibilità, il sindacato aveva i suoi riferimenti importanti nell’elaborazione della legislazione, insomma aveva uno “specchio” nelle aule parlamentari. Questo è venuto meno, indebolendo sia il sindacato e sia il Parlamento.

Aggiungo che in Italia, diversamente dall’Inghilterra dove i laburisti avevano inventato il welfare, lo Stato sociale è stato frutto non di un progetto complessivo ma di una serie di lotte, in una parcellizzazione di esperienze e di norme spesso malscritte e peggio gestite o addirittura eliminate, ma su questo poi tornerò. Voglio solo ricordare un’altra esperienza, piccola ma importante, che precedette di decenni lo Statuto e che semmai esaltava proprio la compatibilità. Fu l’esperienza vissuta in Sicilia, nella prima legislatura dell’autonomia regionale. Domenico Cuffaro, segretario della Camera del lavoro di Sciacca e deputato comunista all’assemblea, propose e fece approvare una legge che assicurava agli ex braccianti senza pensione un reddito di tremila lire al mese: che io sappia fu il primo atto di riforma sociale, 1949!

E oggi? Come vedi la situazione con la fine del Pci, del Psi, della sinistra democristiana?

Che questa crisi ha indebolito seriamente il sindacato. Non è un caso che con il Jobs Act (quanta ipocrisia nel tentare di mascherare con l’inglese una serie di misure antioperaie), voluto da Matteo Renzi, segretario del Pd e presidente del consiglio, è stato abolito un articolo-chiave dello Statuto, quell’articolo 18 che affermava il diritto al reintegro nel posto di lavoro, nelle aziende con almeno quindici dipendenti, di quanti erano stati licenziati senza giusta causa. Un passo indietro gravissimo, un colpo al sindacato. Quel Pd che doveva essere l’erede della sinistra era finito nelle mani di Renzi che non solo chiuse a doppia mandata la stanza dei tradizionali confronti governo-parti sociali, ma giunse a dire che ai sindacati preferiva Marchionne. Ora registro una ripresa del sindacato, dei sindacati: con la direzione di Maurizio Landini la Cgil ha assunto nuova grinta, e anche la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, è donna assai capace e attiva. Tuttavia il sindacato, che rivendica giustamente la sua autonomia, è sempre indebolito – ci insisto ancora – dalla mancanza di riferimenti parlamentari diretti.

Hai contestato più volte, e pubblicamente, che la questione sociale non si pone “quasi mai”. A che cosa ti riferisci in particolare?

Penso alle migliaia di braccianti, in gran parte extracomunitari, che nel Mezzogiorno, ma ora anche al Centro-Nord, vivono in orribili baracche, senza servizi e assistenza di alcun genere; e vengono schiavizzati dai caporali (ma anche da qualche azienda che si dichiara “più pulita”) per pochi euro a giornata, dall’alba alla notte, per raccogliere ora pomodori e ora aranci e altri prodotti della terra.

Sento vergogna per quel che accade e per quanti ne sono vittime. Sento vergogna, più che soltanto sdegno, non solo come ex dirigente sindacale ma come semplice cittadino quale sono. Ecco, il sindacato deve fare di più per questi schiavi. E deve fare di più anche in un altro campo, quello del terziario che cresce sempre di più e sempre più disordinatamente. Il Pd, sembra disinteressarsi della questione sociale. L’unico tentativo di prendere il toro per le corna lo sta facendo il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, con il suo Programma per il Mezzogiorno: in quel documento, ancora sulla carta eh, il lavoro è finalmente la prima esigenza e il primo tentativo di dare al Pd un riferimento con il mondo del lavoro e con la società meridionale. Perché la questione sociale è la prima questione del Paese.

Settant’anni dopo le tue prime esperienza di dirigente sindacale, chi crede nella democrazia e spera nel cambiamento in qualche occasione è sgomento. Amazon recluta ex ufficiali dell’esercito per controllare che i magazzinieri confezionino almeno quattrocento pacchi l’ora. Tu stesso hai denunciato nella tua rubrica giornaliera su Facebook che una cooperativa del Sud – non un privato – ha licenziato Ilaria, una ragazza incinta al quinto mese. Ancora: l’Ordine dei giornalisti ha segnalato che una nostra collega sarda viene pagata poco più di un euro ad articolo. Che cosa ti dicono queste notizie?

Mi dicono, e rivelano a tutti, in che cosa consista la questione sociale oggi. E pongono due questioni. La prima, che nonostante tutto il sindacato non ha la forza che dovrebbe avere: non solo di contrattazione, ma anche di organizzazione della protesta. La seconda, che su questi temi un partito che si dice di sinistra deve avere una posizione netta, intransigente. Deve fare una battaglia sulle vecchie e soprattutto sulle nuove questioni sociali. Altrimenti che cosa lo distingue dai cosiddetti centristi? Un partito di sinistra è tale se la questione sociale (in tutte le forme, anche le più aggiornate e spesso ancora sottotraccia) ha un posto primario del suo programma, se c’è lotta, iniziativa non solo di denuncia ma di azione concreta.

Magari, a proposito di Amazon, ma questo è solo un esempio, ti rispondono: è la globalizzazione, bellezza. Ma alla globalizzazione non c’è un argine, ammesso pure ma non concesso, che la colpa sia nel vorticoso evolversi del mondo del lavoro e delle sue forme. La politica dove sta, come agisce? Dov’è mancata? Tu che sei stato parlamentare (in regione, e poi alla Camera e infine in Senato) ininterrottamente dal ’51 al ’92, ed hai lasciato la militanza nell’ex Pci con la nascita del Pds, come vedi questo vortice?

Io sto ai fatti. Una volta la sinistra aveva un saldo insediamento territoriale e nei posti di lavoro, un rapporto continuo con le masse, articolazioni di base delle Camere del lavoro e delle sezioni di partito. Se leviamo le Camere del lavoro che ancora grazie a Dio funzionano, oggi sul territorio ci sono con esse solo le Acli. Manca l’articolazione politica. Chiusa la più parte dei famosi circoli, dove ci si incontra, con chi si parla, dove si esprimono i desideri, le proposte dei cittadini, dei giovani soprattutto? Non sono così stupido da pensare alla ri-nascita del Pci, però un partito che ha ancora una vocazione di sinistra deve avere un’articolazione territoriale per avere un rapporto con i lavoratori, con gli immigrati, con i disoccupati, coi giovani. E invece mi raccontano di un circolo del Pd di un quartiere romano con antiche e gloriose tradizioni popolari che il giorno delle ultime elezioni politiche era chiuso, sbarrato. Le elezioni non sono più, quasi ovunque, un momento di grande mobilitazione popolare: si esce di casa e si va a votare, se lo si fa. La Lega ha fatto una piazzata perché a Bologna, in occasione delle recenti elezioni regionali, i compagni andavano a prendere i vecchi e li accompagnavano a votare con auto e pulmini. Io mi son detto: finalmente! Almeno a Bologna ci si muove, c’è mobilitazione!

Questa conversazione, che vuole fare il punto a cinquant’anni dallo Statuto, giunge al dunque. Che cosa è cambiato in meglio e che cosa non ha funzionato nel sistema delle garanzie che lo Statuto doveva realizzare. Davvero, come si disse nel ’70, con la legge Brodolini la democrazia entra in fabbrica?

Questo doveva essere il senso, lo scopo, dello Statuto. Portare la democrazia in fabbrica era l’assillo di tanti nel sindacato, in particolare del compagno Trentin e delle sue elaborazioni sui consigli di fabbrica, la commissioni interne, altre forme di rappresentanza. E in ogni caso ovunque si votava. Il sindacato contratta col padrone ma nelle fabbriche si pongono sempre mille problemi. E allora c’è una doppia funzione per le rappresentanze: dare più potere ai lavoratori e insieme far crescere una coscienza democratica. Temo invece che negli anni lo Statuto sia stato in parte svuotato, sino all’abolizione dell’articolo 18 che era fondamentale come principio intangibile. Voglio dire che si sono create, anche così, le condizioni per un rallentamento oggettivo dell’impulso alla modernizzazione dei rapporti di lavoro. Metti insieme questo dato agli altri segni dell’incapacità (spesso oggettiva) di controllare i nuovi lavori, ed avrai la percezione che ancora molta strada dev’essere percorsa per una reale democrazia nel mondo del lavoro.

Mercato, condizione operaia, occupazione e investimenti, nuove modalità di produrre: il punto di partenza e di arrivo è sempre lo stesso: è nel lavoro che si realizzano le persone. Ma c’è in giro tanta negazione dei diritti e tanto nuovo sfruttamento. Come se ne esce? Quali novità cogli?

Oggi la qualità del lavoro è cambiata, moltiplicate le sue modalità, ingigantiti i problemi. Per esempio, tendenzialmente non c’è più la grande fabbrica. E allora il sindacato deve porsi il problema di individuare come e in quale misura si articolano i nuovi lavori e quali possibilità ha di individuarli e di intervenire su ciascuno di essi. Insisto sullo stupefacente sviluppo del terziario in mille direzioni e con mille scopi distinti, una parcellizzazione incontrollata del lavoro: ristoranti e pizzerie – un enorme, diffuso mangificio -, ragazzi che in bici portano sulle spalle le pizze per i clienti, i vari lavori domestici, le badanti… Io, a chi ci aiuta in casa, ho fatto subito il contratto. Ho fatto solo il mio dovere. Ma quanti sono questi contratti, e quanti, per contro, gli sfruttati senza uno straccio di contratto? Quanti lavoratori del terziario sono organizzati dal sindacato? Non credo molti. Si è aperta da tempo una realtà nuova, e capisco le difficoltà intanto a capirne le dimensioni e i contorni, e poi a individuare le tecniche d’intervento.

La mia speranza è una sola: i giovani. Nelle nuove generazioni cresce una capacità di organizzarsi, di stare insieme. Ho molto pensato e penso al movimento delle Sardine. Sia chiaro: si tratta di una loro critica ai partiti, a quel che non fanno, ai loro ritardi. Ma tra loro spira non un ventaccio qualunquista, piuttosto aria di rinnovamento, anche della politica e fors’anche del sindacato. Può darsi che mi sbagli, ma in questi ragazzi sta crescendo una esigenza legittima: una coscienza collettiva, una volontà di stare insieme perché insieme si può contare. Questa è una premessa pero, solo una indicazione: ci si può contare e pesare in un modo o nell’altro. Certo, nel sindacato o nei partiti della sinistra ma anche in altro modo. Questa è una novità cui bisogna prestare grande attenzione, grande rispetto: è un elemento essenziale per la democrazia.

Oggi che i partiti sono fragili e spesso impotenti, oggi che lo stesso Parlamento si rivela assai debole, tutti dobbiamo nutrirci e far conto della volontà di partecipazione, della carica espressa dall’esplosione del volontariato, della richiesta di nuove forme di liberazione (per la donna, per le violenze di genere, per l’aria che respiriamo…), purché tutte queste legittime ansie e battaglie trovino in un domani non lontano forme di reale organizzazione. Altrimenti la democrazia decade, viene meno.

Grazie Macaluso. A proposito, hai appena varcato l’asticella dei 96 anni. E sei sempre sul “pezzo”, e da te ci si aspetta ogni giorno l’analisi della vicenda politica, o quel riferimento storico che pochi ricordano ma che risulta essenziale per leggere i fatti dell’oggi. Auguri!

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