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Djokovic-Medvedev, lezione di agonismo: alle Atp Finals elogio del match inutile

Alle Atp Finals oltre tre ore di gioco in un match che non aveva valore. Se non la lotta epica, vanità e rissa, ancora più nobile proprio per la sua inutilità. Ma è anche questo il segreto dei vincenti

Pubblicato:18-11-2022 19:57
Ultimo aggiornamento:18-11-2022 22:23

djokovic esausto
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TORINO – A quelli col cuore a forma di portafogli è scattato l’esercizio di cinismo, come un tic dell’anima: Djokovic vuole il bonus da 4.7 milioni di dollari, dicono. Vince le Finals senza perdere mai, la molla è economica. Per cui non si butta via nulla, è mero calcolo contadino. Nemmeno una innocua partita di round robin a cose già fatte: sei in semifinale, il tuo avversario ha già l’aereo prenotato per domani, facciamo un’oretta e mezza di palleggio sciolto, appaghiamo la gente, proviamo i colpi. E invece no. L’epica, la lotta. Fino a star male, con le mani che tremano in mondovisione, quasi allo svenimento. E giù di nuovo, colpo su colpo, vincenti, sfondoni, rincorse e bestemmie. Fino al terzo set. Tre ore e dieci minuti, undici esultanza compresa. 6-3 6-7 7-6, lì dove una volta questa formula a gironi avrebbe prodotto un noiosissimo 6-1 6-2, stretta di mano, facciamo in tempo a pranzare. I soldi, dicono… Macché.
Djokovic a fine match, ancora in campo con lo sguardo stravolto, persino incredulo, dice che “questo è lo sport”. Che “queste vittorie valgono molto di più di un semplice match”. Che quell’inutile partita, uno scarto di vera competizione, ha infine preso vita propria, trasformandosi in “una delle partite più difficili che ho giocato”. E Djokovic qualche partita l’ha giocata.

Nole: “Questa partita è un caso da studiare”

Cosa scatta nella testa d’un campione così per impantanarsi in un vietnam del genere? Quanto deve essere spessa la scorza dell’agonismo per tenere fuori dal campo visivo ogni logica che non sia l’avversario, il punto, la vittoria e amen. Mentre quelle 10.000 persone lassù ingolfano l’aria di adrenalina per una rissa inutile, ancora più nobile proprio per la sua inutilità. Gente che ride, e gode, e mai e poi mai sprecherebbe un quinto di quelle energie per una sterile contesa di vanità. Come la si spiega l’impossibilità fisiologica di mollare? Così, a parole sue: “La tensione arriva durante il match, e vuoi vincere indipendentemente da tutto il resto. Credo che questa partita sia un caso di studio, per spiegare la mentalità vincente. Non mi piace fare calcoli, mai fatto. Io voglio vincere ogni punto di ogni partita in ogni momento. Non esiste un vero limite, il limite è nella testa, è nella percezione. I problemi fisici hanno effetto sulla partita e su come ti senti mentalmente, l’avversario ti vede giù e prova a dominarti, come è successo oggi. Ma la grande battaglia è estrarre dal tuo corpo il tuo meglio in ogni momento. Questa è teoria, ma sul campo hai vari fattori che contribuiscono a cambiare tutto. I nervi a volte tirano fuori il meglio o il peggio di te. Bisogna evitare l’isolamento, nel tennis più ti isoli peggio è. Cinque minuti possono costarti un match, il tennis ha bisogno del tuo impegno più totale”.

Si vince morendo per niente. Non sei Djokovic se non hai quella tara. Non sei Medvedev se ribatti colpo su colpo, senza farti quella domanda in più: perché diamine lo sto facendo? E infatti è la prima domanda che poi quei miscredenti dei giornalisti hanno fatto anche al russo in conferenza: perché? “Beh, onestamente prima di scendere in campo non avevo una gran motivazione. Poi una volta in campo il gioco ha preso il sopravvento e mi son detto ‘vabbè divertiamoci, e sia quel che sia”. Ed è così che è stato: Medvedev ha perso tre partite su tre, di fila, al tie-break del terzo set, mai successo prima. Ma lo sport è questo, no? Accadono cose mai successe prima. Si chiama evoluzione della specie.


Djokovic accasciato sulla panca, poi di nuovo pallate

Ora che qualcuno rinfacci a Djokovic – uno che in carriera ha vinto 160 milioni di dollari solo in prize money – che l’ha fatto per soldi. Provateci. C’è stato un momento, alla fine del secondo set – chiuso al tiebreak pure quello – in cui s’è accasciato sulla panca, s’è tolto la maglia e s’è annaffiato con tutta la minerale a portata di mano. Si ritira, temevano tutti. E di nuovo: ma chi? Quello? Due minuti – “time!” – e di nuovo a tirarsi pallate. Sul 4-4 del terzo set, Djokovic e Medvedev sono andati in stallo. Il cronometro andava avanti e il punteggio no: vantaggio, pari, vantaggio, pari, e ancora e ancora.

Sul limitrofo campo d’allenamento quei due matti di Kyrgios e Kokkinakis, che si stavano riscaldando per il doppio serale, hanno fermato i coach, hanno alzato lo sguardo al videowall che li sovrastava mandando le immagini della corrida, hanno preso posto e si sono messi ad ammirare. Uno, due, cinque punti. A un certo punto Kyrgios ride e richiama “Kokki”: questi non smettono più, ricominciamo dai. Djokovic e Medvedev arriveranno a giocare 22 punti, in quel game. E poi a farne altri tre e infine il tiebreak.
Quello di Djokovic (e del complice Medvedev) è accanimento egotico. Ma è anche il segreto dei vincenti. E per scoprirlo, a volte, basta incappare nella più inutile delle partite, una periferia della gloria, solitamente malfrequentata. Tre ore e dieci minuti di lezione, impagabile. Altro che soldi.

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