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Il Pd non vuol vincere e nemmeno pareggiare, solo far vedere che non esiste più

L'editoriale del direttore Nicola Perrone

Pubblicato:18-11-2022 18:34
Ultimo aggiornamento:19-11-2022 18:10

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ROMA – Non passa giorno ormai che dalla mini arena Dem non si alzino le voci più diverse, affannate, dove i pochi rimasti dicono tutto e il suo contrario. Solo un piccolo accenno agli attacchi nucleari dell’ingegner De Benedetti, tessera n.1 del Pd appena nato, che parla di un partito in mano a “baroni”  che fanno gli interessi dei ricconi fregandosene del popolo sempre più povero. Per qualche Dem l’ingegnere ha il dente avvelenato perché in questi anni ha chiesto qualcosina e gli è stato detto no. Ma l’ex editore della corazzata Repubblica non sbaglia quando segnala non solo l’inadeguatezza dell’attuale gruppo dirigente, Enrico Letta in testa, ma pure l’inconsistenza del partito, tutto concentrato a spaccarsi ancor di più in mille micro-correnti interne in vista del prossimo Congresso.

A proposito di Congresso, domani si terrà l’assemblea nazionale del Pd per discutere le necessarie modifiche allo statuto interno per arrivare prima possibile non solo al Congresso ma pure allo svolgimento delle primarie. Dopo il percorso iniziale individuato da Letta, che spostava il Congresso al tempo del mai, c’è stato un sommovimento che ha portato a decidere di anticiparlo il più possibile. Una decisione forzata perché, visti i sondaggi impietosi che ogni giorno tolgono elettori, si correva il forte  rischio di arrivare a fine marzo con un Pd ormai vuoto.

Per quanto riguarda invece i candidati che si stanno facendo sotto per prendere in mano la guida Dem anche qui vien da piangere: ad esempio, Elly Schlein, la candidata non iscritta al partito forte tra i giovani e che molti aspettano non solo per cambiar passo ma rivoluzionare il Pd, ha rilasciato un’intervista dove non c’è una, dico una, idea innovativa. Una lunga intervista per non dire nulla, nemmeno un po’ di calore per la sua sfida: “…ho rivolto un appello a partecipare a una fase che permette di discutere quale visione di futuro proponiamo, chi vogliamo rappresentare e come cambiare con coraggio questo modello di sviluppo…”; errori della sinistra? “… ha governato a lungo senza agire sulle cause profonde della precarietà del lavoro…”; la sua candidatura? “I grandi cambiamenti non si muovono sulle spalle di traiettorie individuali ma di mobilitazioni collettive”. Voi capite che balbettare queste cose in faccia al popolo da riconquistare non solo rischia di farlo ancor di più allontanare ma pure che dal popolo arrivino pernacchie e non solo quelle.


Per non parlare di Orlando e degli altri spezzoni di sinistrati interni, che oggi hanno riscoperto quant’è cattivo il Capitalismo e che bisogna fare la rivoluzione, che il Pd o sarà “socialista ed ecologista o non sarà” e via discettando con qualcuno di loro che a sentire socialista sobbalza e si accontenta di definirsi ‘socialdemocratico’. Un partito immobile, che nemmeno sa più fare battaglia politica, decidere quando fare un passo indietro per conquistarne due in avanti. Niente.

In Lombardia, ad esempio, la Regione dove la sinistra e il Pd non batte palla da sempre, con l’entrata in campo dei Letizia Moratti si è materializzata la possibilità di scardinare il blocco del Centrodestra. Centrodestra che vive la profonda crisi della Lega di Salvini ormai soppiantata da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che ha bisogno di qualche tempo per non solo radicarsi ancor di più in quel territorio ma conquistare anche culturalmente il popolo dei produttori lombardi. Che fa il Pd? Invece di aprire una trattativa sul programma, su quello che andrebbe fatto per scardinare decenni di potere leghista, sugli uomini e donne da mettere alla guida di quei processi di cambiamento, si mette a frignare sul dna della Moratti, quasi che fosse peggio di tutti gli alleati a cui i Dem si sono accompagnati in tutti questi anni con la scusa delle varie emergenze.

No, Moratti proprio no, dicono i Dem che, alla faccia della novità, tirano fuori dal cilindro nientepocodimeno che: l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino, in politica da sempre, ben piazzato in quella sicura (politicamente parlando) ztl cittadina che si vorrebbe eliminare, con un bel marchio di sinistra così da far vedere che si punta a… perdere di sicuro. Una battaglia tanto per far vedere, ancora una volta, che non si conta niente, che nemmeno il candidato ci crede per davvero. Per questo, infatti,  ci voleva almeno un forte segnale: signori e signore voglio vincere e sono sicuro di vincere, per questo mi dimetto e lascio la poltrona di europarlamentare. Un gesto simbolico, tanto si sa che Bruxelles per decidere ci avrebbe messo più tempo di quello che manca al voto, ma almeno avrebbe segnato una differenza.

Te saluto, come dicono i romani. Tutti questi Dem dimenticano che loro, questi che oggi si affannano a rivendicare la verginità, sono stati ai posti di comando, non solo di partito ma del governo nazionale per anni e anni, decenni. Che potevano fare e non hanno fatto, che hanno preferito le scorciatoie rispetto alle battaglie dove si rischiava il posto. Per questo c’è bisogno di aprire per davvero porte e finestre, che la nuova classe dirigente di giovani, donne e uomini, che da anni si sta facendo il mazzo sul territorio per risolvere davvero i problemi del popolo e che non è mai stata valorizzata dai comodi lazzaroni che si davano di gomito in tv, prenda con forza in mano la guida Dem. Ci vuole coraggio, se non ora quando?

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