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VIDEO | Siria, il racconto della volontaria italiana in Rojava: “Bombe sugli ospedali Curdi”

I feriti da curare "sono sempre di più tra militari e civili" e ci sono poche risorse e strutture "perché le ong internazionali hanno dovuto lasciare il campo"

Pubblicato:18-10-2019 12:37
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:51
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ROMA – L’esercito turco “bombarda indiscriminatamente anche sulla popolazione curda, in maniera diretta, mi viene da dire mirata. E sgancia bombe su ospedali e sulle nostre ambulanze che non riescono più a raggiungere le zone di guerra”. I feriti da curare “sono sempre di più tra militari e civili” e ci sono poche risorse e strutture “perché le ong internazionali hanno dovuto lasciare il campo”, mentre “i pochi ospedali reggono solo grazie alle organizzazioni locali e all’amministrazione autonoma”. Lo racconta Cecilia Soldino, 23 anni, studentessa di medicina, rientrata a Firenze due giorni fa dal Nord della Siria dopo tre mesi passati in Rojava come volontaria della Mezzaluna Rossa Curda nel campo profughi Al Hol, che conta 70.000 persone. Lo fa a Palazzo Vecchio, alla vigilia della manifestazione toscana a sostegno dei curdi, con il corteo che si muoverà domani da piazza Santa Maria Novella dalle 15.

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“La mia scelta di partire? Assolutamente politica, prima che umanitaria”, perché “quello che stanno costruendo i curdi e gli ideali che muovono questa società e questa rivoluzione, sono i miei e credo dovrebbero essere di tutti: il ruolo della donna, l’integrazione tra i popoli, l’auto organizzazione e la partecipazione attiva dei cittadini. Mi sono unita per guardare, ma ancor più per imparare da quello che stanno facendo”.


Un progetto umano e politico troncato dalla furia del presidente Erdogan, dice, su un’area che era pronta a ricostruire dopo aver messo l’Isis all’angolo. Stroncato dalla bombe turche e dall’evacuazione su un pezzo di terra siriana “già interessata da una crisi umanitaria enorme, fatta di infezioni, gravidanze a rischio, disidratazione per le condizioni dell’acqua. Con campi profughi che vanno dalle 10 alle 70.000 persone, di cui una componente importante è fatta anche da famiglie sostenitrici dell’Isis, di donne e figli dei miliziani delle Stato islamico”.

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In campi, spiega, “dove si sono ridotti i contingenti di forze per la sicurezza, così come è ridotta la disponibilità dei servizi”.
Un percorso, quello di Cecilia, iniziato tre mesi fa: “Ho avuto la fortuna di arrivare quando la guerra con l’Isis era finita, in un momento di ricostruzione. Da studentessa di medicina, ho dato un apporto in campo sanitario: ho avuto a che fare prevalentemente con rifornimenti di medicine e con l’organizzazione dello staff medico”. Ma “tutto si è dovuto fermare per far fronte all’emergenza del nuovo conflitto”.

Quando sono esplose le prime bombe “ero a Qamishli”, città controllata dai curdi vicina al confino con la Turchia, e “ho potuto sentire direttamente i boati nella totale incertezza, per l’idea che quegli aerei arrivassero anche in città. Però, il pericolo più grosso non l’ho corso io, che con il mio passaporto internazionale posso uscire. Lo corre una popolazione bloccata da una frontiera chiusa”.

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