NEWS:

VIDEO | Djarah e le altre, scrittrici ‘future’ contro gli sterotipi

Djarah Kan ha genitori ghanesi ed è nata a Santa Maria Capua Vetere. Il suo ultimo racconto di intitola 'Il mio nome'

Pubblicato:17-10-2019 12:23
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:50
Autore:

FacebookLinkedInXEmailWhatsApp


NAPOLI – “Afro-italiano, italo-questo, italo-quell’altro, migrante, immigrato… la gente adotta parole come se fossero cuccioli in strada che hanno bisogno di mangiare. Ma non è proprio cosi'”. Avvolta in una larga felpa nera con il cappuccio, gli occhiali da sole ottagonali appoggiati sulla fronte, Djarah Kan, scrittrice e cantautrice nata nel 1993 a Santa Maria Capua Vetere da genitori ghanesi, ragiona sul potere delle parole a partire dal suo racconto ‘Il mio nome‘.



Il testo fa parte di ‘Future’, l’antologia di autrici afro-italiane a cura di Igiaba Scego (‘Effequ’, 2019) presentata a Napoli durante un incontro organizzato dalla cooperativa Dedalus in collaborazione con la libreria Tamu. “Non ‘future’, in inglese – sottolinea Kan – ma proprio ‘Future’, in italiano, al femminile plurale”. Nel racconto di Djarah, una ragazzina si confronta con il tema delle radici e dell’identità attraverso il primo, sorprendente incontro con la “zia”.

La “zia” arriva dal Ghana in Italia per visitare la sorella, ovvero la mamma di Elisabeth: questo è il nome della giovanissima protagonista. È dalle parole della “zia” che Elisabeth scopre con sgomento che i genitori le hanno dato “soltanto un nome europeo per non dare fastidio ai bianchi quando devono imparare come pronunciarlo”. Le manca, invece, un nome ancestrale, che le permetta “di stare con la famiglia e con gli antenati sempre, ovunque vada”. E questo tema del nome, che porta con sè quello delle radici e dell’identità, è il fulcro intorno al quale si snoda tutta la narrazione. Ma quali sono le “parole dei bianchi” che, come denuncia la protagonista del racconto, creano “mondi insopportabili”?

L’agenzia Dire lo chiede a Djarah a margine della presentazione. Le “etichette sono molto difficili da sopportare” risponde la scrittrice. “Non ti permettono di raccontare te stesso in maniera autonoma e indipendente, non ti permettono di essere ciò che sei e affermare la tua identità o la tua appartenenza a una determinata comunità. Ti chiamano immigrato, o migrante, quando magari sei solo un essere umano, che nella sua vita ha deciso di fare delle scelte per raggiungere un obiettivo. Spesso veniamo chiamati migranti, ma decidiamo di stare in un posto, di fermarci. Per questo la parola ‘migrante’ non è più tollerabile, perchè crea differenze tra esseri umani”.

‘Il mio nome’ è anche un racconto sull’identità: nascosta, molteplice, fluida e a volte negata, come a Djarah è stata negata la cittadinanza italiana, che ha ottenuto solo l’anno scorso, dopo una vita in Italia. Per lei non si tratta di “un premio, o di un punto di arrivo, ma di uno strumento, che ti permette di poter partecipare alla cosa pubblica, di essere un soggetto attivo, di dare alla comunità, e non solo di essere sfruttato”. Ancora Diarah: “In tutto ciò, però, ci si dimentica che la cittadinanza europea, così come quelle americana o australiana, vale di più, da un punto di vista economico e politico, di quelle dei cosiddetti ‘Paesi del terzo mondo’. Questo è il grande problema da affrontare”.

Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it