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Test d’ingresso a Medicina: universitari e conferenza rettori divisi su numero chiuso

Camilla Piredda (Udu) ne chiede l'abolizione, per il presidente Crui, Ferruccio Resta, è necessario in quanto elemento di pianificazione

Pubblicato:17-08-2022 17:29
Ultimo aggiornamento:17-08-2022 17:29

la sapienza roma
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ROMA – È ufficialmente partito il conto alla rovescia per il test di ingresso alla facoltà di Medicina e chirurgia. Il 6 settembre, infatti, aspiranti camici bianchi di tutta Italia si cimenteranno nel primo ostacolo per accedere ai ‘Corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e chirurgia e in Odontoiatria e protesi dentaria erogati in lingua italiana‘.

LA PROVA DI AMMISSIONE

Rispetto agli anni passati, il Ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha firmato il provvedimento che rimodula il numero dei quesiti per ciascuna materia. Per la prova di ammissione, che durerà 100 minuti, i candidati dovranno rispondere a 60 domande a risposta multipla, con un punteggio massimo previsto pari a 90 punti. Il test di ingresso darà maggiore spazio alle materie disciplinari e meno alla logica e alla cultura generale. La nuova ripartizione della prova di selezione prevede, infatti, il 15% del test per quiz di ragionamento logico, ragionamento numerico e humanities. La restante percentuale del test è attribuita alle materie disciplinari: dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla matematica.
I quesiti saranno così ripartiti: 4 relativi alle competenze di lettura e alle conoscenze acquisite negli studi, 5 al ragionamento logico e ai problemi, 23 alla biologia, 15 alla chimica e 13 alla fisica e alla matematica.

LA SODDISFAZIONE DELL’UDU

Una modalità che soddisfa l’Unione degli Universitari. ‘Anche quest’anno si è seguito l’andamento degli ultimi anni- commenta alla Dire Camilla Piredda, Esecutivo Nazionale Udu– durante i quali si è via via diminuito il numero delle domande di logica e si è dato maggiore spazio a quelle di biologia e matematica, le materie più di indirizzo. Quello che ci preoccupa, però, è il futuro del test, con l’entrata in vigore come metodologia, a partire dal 2023/2024, del Test Online Cisia, il cosiddetto Tolk‘.


L’UNIONE DEGLI UNIVERSITARI CRITICA L’AVVICINAMENTO AL TEST FIN DALLE SUPERIORI

C’è un altro aspetto che non convince appieno l’Udu: l’avvicinamento al test d’ingresso a Medicina inizia alle scuole superiori. ‘Riteniamo- sottolinea Piredda- che ancora una volta si vada ad aumentare l’ansia da prestazione della popolazione studentesca. Il fatto di avere la possibilità di svolgere il test di Medicina più volte a partire dalla quarta superiore aumenta la competitività, che già caratterizza il test. Inoltre, invece che concentrarsi sullo studio, un ragazzo sarà chiamato a concentrarsi sulla preparazione al test, partecipando a corsi esterni fino alla quinta’. Non è tutto. Questa modalità, secondo Piredda, ‘va a vantaggio delle persone che hanno condizioni economiche più abbienti. In Italia la preparazione ai test di medicina non viene fatta dalle scuole, ma se ne occupano diversi enti privati che hanno costi esosi: stiamo infatti parlando, come minimo, di almeno 1.500 euro l’anno‘.
‘E se è vero che alcuni atenei danno la possibilità di prepararsi al test in maniera gratuita- aggiunge- è altrettanto vero, però, che ai partecipanti non viene garantito lo stesso livello di preparazione di una scuola privata che, invece, fornisce una preparazione per due anni: siamo dunque di fronte ad un vero e proprio dislivello’.

IL NUMERO CHIUSO: IL PUNTO DI VISTA DELL’UDU

C’è poi un altro aspetto che lascia perplessa, e non poco, l’Unione degli universitari, quello relativo al numero chiuso. ‘Come Udu- precisa l’esponente dell’Esecutivo Nazionale- riteniamo che ad oggi sia necessario un investimento strutturale rispetto a quello che è l’ampliamento della docenza e a quello che è l’ampliamento delle sedi di studio e laboratoriali per quanto concerne i corsi di Medicina, ma per tutte le professioni sanitarie, in maniera tale da poter arrivare da qui a un periodo evidentemente non breve a un’apertura della Facoltà di Medicina’.

‘Siamo infatti convinti- precisa- che dopo qualche anno avvenga una scrematura naturale e che il ricorso al Tolk come metodologia di test rischi soltanto di rendere ulteriormente un privilegio l’entrata al corso di Laurea in Medicina, che sarà accessibile alle persone che, fondamentalmente, possono permettersi di andare a svolgere corsi privati che aiutano nella preparazione al test, rendendo invece sempre più difficoltoso l’ingresso per coloro che vengono da una situazione economica svantaggiata‘.

IL RICORDO DEL COVID E LA NECESSITA’ DI AVERE MEDICI

Quando si parla di numero chiuso, per Camilla Piredda è impossibile non fare riferimento al Covid e alla necessità di poter fare affidamento su nuovi medici all’interno del Servizio sanitario nazionale. ‘Soprattutto dopo quello che abbiamo visto durante il periodo pandemico– afferma- riteniamo sia abbastanza tangibile ed evidente che sul nostro territorio nazionale ci sia una ingente carenza di medici e che questo aspetto vada attenzionato. Ovviamente non solo aprendo Medicina e abolendo il numero chiuso all’ingresso, ma andando anche a investire sulle borse di studio di specializzazione. Perchè il vero problema è l’imbuto formativo una volta conclusi i 6 anni di Medicina e l’ingresso nella specialistica, dove ci sono ancora meno posti e dove il numero chiuso è ancora più stringente, fatto che, ad oggi, non permette di avere medici specializzati in Italia’.

IL NUMERO CHIUSO: IL PUNTO DI VISTA DELLA CONFERENZA DEI RETTORI

Di tutt’altro avviso il Rettore del Politecnico di Milano e presidente della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Crui), Ferruccio Resta, che alla Dire precisa: ‘Noi non diciamo ‘no’ al numero chiuso, non riduciamo il tema a ‘sì numero chiuso’, ‘no numero chiuso’. Serve invece ragionare su quanti posti abbiamo sul fronte delle specializzazioni, su quali sono le specializzazioni di cui avremo bisogno nel futuro, perchè gli immatricolati di adesso diventeranno medici tra sei, nove anni e dunque ridurre tutto semplicemente con una apertura ai numeri chiusi, indipendentemente dalla qualità dell’insegnamento e dalla possibilità poi per i laureati di entrare nel mondo del lavoro, è un errore’.

Il numero chiuso- aggiunge Resta- è necessario in quanto elemento di pianificazione, inserito proprio in una logica che ha dieci anni di pianificazione. Parlare di numero chiuso senza ragionare a dieci anni, visto che si parla delle studentesse e degli studenti che oggi si immatricolano, è davvero fuori luogo. Servono risorse, la specializzazione ha bisogno di risorse, e servono posti. Questo vale sia per Medicina che per tutte le lauree’.

RESTA: I PROGRAMMI A MEDIO-LUNGO TERMINE SONO LA SOLUZIONE ALLA CARENZA DEI MEDICI

I problemi attuali, primo fra tutti la carenza di medici, secondo Resta, ‘si risolvono con programmi di medio-lungo termine, con l’impegno che per i prossimi cinque, otto anni si impiegheranno le risorse in questi ambiti. Servono medici, servono analisti digitali, servono operatori della transizione energetica ed ecologica. Occuparsi della moda del momento non si chiama pianificazione‘.

Una pianificazione che Resta si augura anche dal prossimo ministro dell’Università e della Ricerca. ‘Noi abbiamo lavorato aumentando i numeri chiusi di Medicina sia con il ministro Manfredi che con la ministra Messa, ma lo abbiamo fatto in maniera significativa e garantendo alle laureate future e ai laureati futuri una occupabilità nelle specializzazioni. Mi auguro che il prossimo ministro continui questa interlocuzione che ha avuto con la Crui per fare pianificazione sul medio termine’, conclude.

IL VOTO DEL 25 SETTEMBRE: L’UDU LANCIA UN APPELLO ALLA POLITICA

Il 25 settembre, dunque, italiani al voto per le elezioni politiche. Camilla Piredda lancia un appello al neo ministro che uscirà dalle urne. ‘In questi anni di pandemia, ma anche da prima, abbiamo notato un totale assenteismo delle tematiche universitarie all’interno della sfera parlamentare e partitica. Per due anni in Italia non si è infatti parlato di Università e i problemi di questa sono stati lasciati completamente a discrezione degli atenei, che nella propria autonomia hanno gestito una crisi evidentemente più grande di loro, senza però aver alcun tipo di sostegno da parte dello Stato. Speriamo quindi che ci si renda conto, che si prenda consapevolezza dell’importanza dell’Università all’interno del contesto italiano e che vengano fatti investimenti reali e strutturali‘.

‘Investimenti- precisa Piredda – che non abbiamo visto nemmeno all’interno del Pnrr dove, invece, si parla solo di Ricerca e dove c’è davvero poco che riguarda l’Università, come istituto, come finanziamenti che deve ricevere, senza dimenticare la docenza e, soprattutto, le strutture. Il problema principale del numero chiuso ad oggi in Italia è che mancano le strutture e mancano i docenti, perchè le Università non si possono permettere quel tipo di investimento che sarebbe invece necessario anche per consentire una maggiore apertura. Stiamo infatti parlando di un sistema di diritto allo studio che è il più costoso in Europa. In Italia è davvero un privilegio poter studiare all’Università’.

I COSTI DELL’UNIVERSITA’ IN ITALIA: LE TASSE E IL MATERIALE DIDATTICO

In effetti, sfogliando le pagine del dossier sul costo medio annuo dell’Università in Italia eleborato proprio dall’Udu, si legge che, mediamente, l’università costa alle famiglie circa 5.000 euro annui per i frequentanti in sede, 5.500 euro per i frequentanti abitanti in provincia è 11.000 euro per gli abitanti fuori provincia che affittano una stanza singola. I fattori principalmente considerati dal dossier, che prende in esame 70 atenei sparsi in tutta Italia, sono la tassazione, il materiale didattico, i pasti, il trasporto, urbano ed extraurbano, l’affitto e il costo di rientro presso la propria residenza.

Per quanto riguarda la tassazione studentesca, ad oggi, il costo medio annuo per ciascuna studentessa e ciascuno studente è pari a 1.353,43 euro, raggiungendo anche picchi di 2.314,46 euro
al Politecnico di Milano, 2.043,90 euro all’Università degli Studi dell’Insubria, 1.965,44 euro all’Università degli Studi di Pavia e 1.871,04 euro all’Università degli Studi di Bologna
.

Sul fronte del materiale didattico, il costo è stimato a circa 697,60 euro, comprensivi di un PC acquistato al primo anno e ammortizzato nei vari anni di studio. Per quanto riguarda, invece, i dati relativi ai pasti, dal report emerge che, stimando un costo medio pari a 7,50 euro, annualmente gli studenti ‘in sede’ spendono annualmente fino a 2.730 euro, i fuorisede fino a 5.460 euro.

I TRASPORTI E GLI AFFITTI

Capitolo trasporti: se per gli studenti ‘in sede’ e fuori sede il costo medio di un abbonamento annuale al trasporto urbano è pari a 200,14 euro, con uno sconto pari a circa il 36% rispetto al costo ordinario, per i pendolari la cifra media dell’abbonamento annuale al trasporto extraurbano, estremamente variabile, raggiunge quota 650 euro. Il documento mette poi la lente d’ingrandimento sul tema ‘affitto’. Il numero complessivo di posti letto disponibili a livello nazionale è pari a 36.478, a fronte di poco più di 764mila studentesse e studenti che studiano in un ateneo che non si trova nella rispettiva provincia di residenza. Il numero di posti letto garantiti è dunque inferiore al 5% del fabbisogno complessivo.

In questa situazione fa la propria comparsa il sistema di affitti privato, in un mercato sempre più costoso per tutte e tutti i fuorisede: il testo evidenzia come circa il 26% della spesa media annua effettuata da fuorisede sia solo per il pagamento dell’affitto, che raggiunge un costo medio annuo di circa 2.882,53 euro, con casi limite come quello di Milano, pari a 6.048,00 euro, quello di Firenze, 4.972,80 euro, quello di Roma, 4.704,00 euro, e quello di Bologna, 4.536,00 euro. Anche fare rientro nella propria residenza ha un costo: studentesse e studenti spendono in media almeno 410 euro all’anno.

LA RICETTA UDU PER UNA UNIVERSITA’ A MISURA DI STUDENTE

Camilla Piredda fornisce poi gli ingredienti per realizzare una Università italiana davvero a misura di studente. ‘Riteniamo che lo Stato debba muoversi per rendere l’Università gratuita, accessibile a tutte e tutti, che debbano essere fatti investimenti per garantire una didattica di qualità che non sia preclusa a nessuno. Chiediamo una Università che non abbia costi esosi e irraggiungibili per la maggior parte della popolazione e che, proprio nell’ottica di una gratuità, si prenda ad esempio il sistema di welfare che riscontriamo nei Paesi nordici ma anche in Paesi più poveri come la Grecia‘.

Una Università gratuita, accessibile a tutti e inclusiva, dunque, ‘ma soprattutto- tiene infine a precisare- in grado di offrire anche un servizio di assistenza psicologica gratuito e interno alle strutture, che ad oggi manca. Le 30mila risposte che ci sono pervenute a seguito della campagna nazionale dal titolo ‘Chiedimi come sto’, hanno dimostrato con forza come, ad oggi, sia essenziale offrire servizi di assistenza psicologica all’interno delle istituzioni preposte al sapere‘, conclude.

IL CENSIS E I MIGLIORI ATENEI DI MEDICINA: PAVIA, MILANO BICOCCA E BOLOGNA

In tutto questo, come scegliere la giusta Università in cui studiare Medicina? A rispondere a questa domanda ci pensa il Censis, che nel suo rapporto 2022 delinea i tre migliori atenei: si tratta di Pavia, Milano Bicocca e Bologna.

IL CENSIS E LA CLASSIFICA DELLE UNIVERSITA’ STATALI

Allargando lo sguardo alla classifica Censis delle Università italiane si scopre che la prima posizione tra i mega atenei statali, quelli con oltre 40mila iscritti, è occupata dall’Università di Bologna. Seguono l’Università di Padova e La Sapienza di Roma. Subito dopo troviamo Pisa, Firenze, Statale di Milano, Università di Palermo e di Torino. Al vertice dei grandi atenei statali, da 20mila a 40mila iscritti, ecco l’Università di Pavia, seguita dall’Università di Perugia e dall’Università della Calabria. L’Università di Siena guida, invece, la classifica dei medi atenei statali, da 10mila a 20mila iscritti. Secondo posto per l’Università di Sassari, terzo per l’Università di Trento. L’Università di Camerino si prende la prima posizione nella classifica dei piccoli atenei statali, fino a 10mila iscritti. L’Università di Macerata e l’Università Mediterranea di Reggio Calabria occupano, rispettivamente, il secondo e il terzo posto. La classifica dei Politecnici è guidata dal Politecnico di Milano, seguito dal Politecnico di Torino e dallo Iuav di Venezia. Chiude la classifica il Politecnico di Bari.

IL CENSIS E LA CLASSIFICA DELLE UNIVERSITA’ NON STATALI

Tra i grandi atenei non statali, con oltre 10mila iscritti, la prima posizione è occupata dall’Università Bocconi, la seconda dall’Università Cattolica. Tra i medi atenei non statali, da 5mila a 10mila iscritti, la Luiss si colloca in prima posizione, seguita dallo Iulm, dalla Lumsa e dall’Università Suor Orsola Benincasa. Infine, tra i piccoli atenei non statali, fino a 5mila iscritti, al vertice si piazza la Libera Università di Bolzano. Poi l’Università di Roma Europea e la Liuc-Università Cattaneo.

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