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Covid, Cartabellotta: “Discesa casi sovrastimata, pandemia non è finita. Governo pensi ora all’autunno”

L'intervista al presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta

Pubblicato:17-02-2022 18:16
Ultimo aggiornamento:17-02-2022 18:20

cartabellotta
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ROMA – Continuano a diminuire i casi di Covid-19 in Italia e finalmente iniziano a calare anche i dati relativi ai decessi. Ma cosa avverrà nel prossimo futuro? Potremo dire addio alle mascherine e alle restrizioni o questo potrebbe rivelarsi un grave errore di cui pagheremo lo scotto in autunno, quando ci si aspetta una risalita dei contagi? Ne abbiamo parlato con il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta.

– Presidente, il report che avete presentato oggi registra un netto calo di tutti gli indicatori. Possiamo finalmente dire che il peggio, per ora, è passato?

 “Per ora ci avviamo in una fase di ragionevole ottimismo, perché scendono i nuovi casi, si stanno alleggerendo in maniera importante i tassi di occupazione in area medica e nelle terapie intensive e finalmente, per la prima settimana, cominciamo a vedere anche un calo dei decessi. Diciamo che siamo in piena fase discendente della quarta ondata, ma sottolineo che questo non coincide né con la circolazione endemica del virus né tantomeno con la fine della pandemia. Viviamoci questo momento con rinnovato ottimismo, però bisogna anche pensare a programmare la gestione della prossima stagione autunno/inverno”.


– Cala anche il numero di tamponi effettuati. Escludiamo però che il calo dei contagi registrati sia dovuto a questo? 

“Di fatto la risposta è no, perché il calo dei contagi, che questa settimana scendono di oltre il 32% rispetto alla settimana precedente, è dovuto a due fenomeni concomitanti: il primo è il calo dell’attività di testing in questa settimana, perché i tamponi totali sono scesi del 27,8%, e il secondo è la ridotta circolazione virale che noi andiamo a misurare con i tassi di positività di tamponi sia molecolari sia antigenici, che documentano come in realtà la circolazione del virus  è ancora molto elevata, siamo infatti intorno al 10-12% per i tassi di positività dei tamponi. Questo dato quindi ci dice che il virus sta circolando ancora tanto, ma poiché stiamo testando meno, la discesa dei casi è un po’ sovrastimata proprio per questa ridotta attività di testing”.  

– I dati migliorano ma il 15 di febbraio è scattato l’obbligo di vaccinazione per gli over 50. Pensa che questa misura sia arrivata con qualche mese di ritardo oppure produrrà comunque effetti positivi nella vaccinazione?

 “In generale sappiamo che le misure intraprese sull’obbligo sono state frutto di un ragionevole compromesso politico, hanno scelto questa fascia d’età, che è quella un po’ più a rischio, ma l’entrata in vigore del provvedimento è stata tardiva rispetto anche alla decisione arrivata alla vigilia di Natale. Ragion per cui adesso è evidente che i potenziali effetti sono relativamente modesti, tenendo conto che siamo in fase discendente. Bisogna vedere quale sarà la cornice all’interno della quale si manterrà questo obbligo rispetto ai mesi successivi. È evidente che quello che noi vediamo, settimana dopo settimana, è che gli over 50 nuovi vaccinati declinano in maniera costante: questa settimana si è registrato quasi il 40% in meno e questo significa che la presa sui lavoratori è stata sostanzialmente molto modesta”.

– Sarebbe utile, quindi, che tutti gli over 50 si vaccinassero?

 “Servirebbe, perché di fatto rispetto anche ai dati di occupazioni ospedaliere c’è una prevalenza di persone non vaccinate che si trovano in quella fascia d’età. Poi è chiaro che più si va avanti negli anni e più aumenta il rischio, ma in generale tutti gli over 50 idealmente dovrebbero essere vaccinati. Sono un po’ il ‘tallone d’Achille’ della nostra campagna vaccinale in questo momento”.

– Finalmente calano anche i decessi che fino ad oggi erano invece rimasti stabili. Perché c’è stata questa discordanza? Se ne sta discutendo molto, può aiutarci a fare un po’ chiarezza?

 “Se andiamo a guardare il tasso di letalità in realtà, rispetto a quella che è stata l’altezza dell’ondata di Omicron, non abbiamo avuto un numero di decessi straordinariamente elevato. Mi spiego meglio: l’ondata Omicron è stata caratterizzata da un numero di casi che non avevamo mai avuto in nessuna delle ondate, proprio per la sua elevatissima contagiosità. Poi ci sono due aspetti da considerare: il primo è quello che si chiama in termini tecnici il ‘lag-time’, cioè un ritardo temporale, quindi noi vediamo scendere per ultima la curva dei decessi perché riflette i contagi che sono avvenuti nelle tre/quattro settimane precedenti; il secondo è che il dato che viene commentato come ‘eccesso di mortalità’ in Italia, in realtà, va considerato in modo diverso, cioè se andiamo a guardare il confronto del periodo attuale con la media dei cinque anni precedenti addirittura i morti Covid sarebbero quasi sottostimati rispetto all’eccesso di mortalità. Tutte quelle chiacchiere che si sono fatte rispetto a questi aspetti non hanno alcuna base. La domanda che qualcuno pone è: ‘Allora perché in Italia si muore di più che in altri Paesi?’. Credo ci sia un problema demografico al quale non diamo una sufficiente risonanza nella comunicazione pubblica: in Italia noi viviamo molto, siamo uno dei Paesi con aspettativa di vita alla nascita più alta, però invecchiamo male. Gli over 65 in Italia hanno aspettative di vita in buona salute tra le più basse dei paesi OCSE. Quindi è evidente che quando un virus incontra una persona ultra 65enne, con due o tre patologie, inevitabilmente questo aumenta il tasso di mortalità”.

– Anche alcuni medici, intanto, hanno messo in dubbio i numeri di ricoverati e morti per Covid. È possibile che ci sia stato un errato conteggio legato alla pandemia?

 “Assolutamente no, i dati relativi all’eccesso di mortalità rispetto alla media dei cinque anni precedenti sono perfettamente coincidenti con la mortalità Covid, addirittura mancherebbero decessi segnalati rispetto all’eccesso di mortalità. Poi, che alcune volte possano, per ragioni opportunistiche locali, verificarsi degli errori di codifica questo non si può escludere, ma che questo possa avere un impatto sul dato nazionale macro assolutamente no”.

– Sempre secondo gli ultimi dati GIMBE, calano anche i nuovi vaccinati e le terze dosi. Pensa che questo potrà essere un problema per il prossimo futuro?

 “A me quello che preoccupa è il mancato decollo che è coinciso con il continuo calo della fascia 5-11 anni: anche questa settimana abbiamo avuto un -40% come nuovi vaccinati e la percentuale di questa fascia è ancora troppo bassa. Sicuramente la vaccinazione dell’area pediatrica non è stata sufficientemente spinta dal punto di vista comunicativo, non tanto pubblico ma di comunicazione ‘one-to-one’ da medico a genitore in questo caso. Quello che in generale bisogna prendere in considerazione è che noi rispetto alle terze dosi abbiamo una quantità di persone da vaccinare sempre inferiore, quindi i numeri assoluti delle somministrazioni settimanali calano inevitabilmente. Proprio per questo dobbiamo cominciare a capire quando il problema si ripresenterà probabilmente intorno all’autunno”.

– Si sta discutendo di una quarta dose per i pazienti immunocompromessi. AIFA e ministero della Salute, però, ancora non si sono pronunciate e nel vostro report si segnala invece l’urgenza di prendere una decisione. Si sta perdendo tempo?

 “È la terza o quarta settimana consecutiva che noi ribadiamo questa necessità, perché il 18 gennaio, durante la conferenza stampa dell’Agenzia Europea del Farmaco è stato ribadito che la quarta dose al momento non ha nessuna indicazione per la popolazione generale, mentre va presa in considerazione per le persone immunodepresse. Poiché noi abbiamo iniziato a somministrare la terza dose agli immunodepressi, che ricordo veniva considerata come dose aggiuntiva e non come booster, abbiamo incominciato a vaccinare intorno alla metà di settembre. Oggi i quattro mesi sono ben che trascorsi per un certo numero di persone e sarebbe urgente, in tal senso, che l’AIFA si pronunciasse e poi di conseguenza il ministero della Salute.  Ma credo che proprio ieri il ministero abbia fatto una richiesta urgente all’AIFA per risolvere questo tipo di problematica e dare il via alla somministrazione della quarta dose per le persone immunodepresse”.

– Dal vostro report emerge che al momento i non vaccinati si aggirano intorno ai 7 milioni. Quanto hanno inciso e quanto incidono ancora sulla pandemia? 

“Faccio una precisazione: i non vaccinati sono circa 7 milioni e di questi ci sono circa 2 milioni di persone che sono guarite da meno di 180 giorni, quindi sono coperte dall’immunità acquisita post-infezione per un certo numero di mesi, diciamo a sei mesi dall’infezione. È evidente che in termini di circolazione del virus incidono relativamente poco, però soprattutto per quello che riguarda gli over 50 incidono tanto in termini di tassi di occupazione ospedaliera, perché oggi di fatto la probabilità di finire in ospedale ha delle percentuali enormemente più alte per quelle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Tra l’altro per le persone guarite il problema si ripresenterà dopo sei mesi dal contagio, quando cioè saranno nuovamente esposte al virus. Quindi ribadisco: in termini di circolazione virale oggi credo che la quantità di non vaccinati sia un problema relativamente contenuto, ma lo è molto di più per quel che riguarda le ospedalizzazioni”.

– Con questi numeri e con un trend ribassista dei contagi ritiene sia opportuno ridurre le restrizioni?

Credo che le politiche attuate nel corso di questi mesi sian ostate assolutamente consone e sempre in linea con l’andamento della curva epidemiologica. Farsi guidare dalla gradualità piuttosto che da azioni decise, come avvenuto in altri Paesi, penso sia il principio base per quello che stiamo vedendo, cioè dei numeri che scendono ma lentamente. Mi preme però sottolineare una cosa: se noi dobbiamo andare verso una primavera/estate in cui sicuramente non ci saranno restrizioni, questo non dovrà tradursi in un abbandono degli strumenti di precauzione come le mascherine al chiuso oppure, come si sta proponendo in alcuni Paesi, la decisione di non prevedere più l’isolamento delle persone positive. Ecco, attenzione: allentare o ridurre completamente le restrizioni è una cosa, abbandonare le misure fondamentali di salute pubblica è un’altra. La seconda non ce la possiamo permettere, perché di fatto è inclusa nella nuova normalità che richiede la convivenza con il virus”.

– Lei ha segnalato la necessità di prepararsi allo scenario del prossimo autunno-inverno. Ma che scenario immagina? E cosa è necessario fare, fin da ora, per farsi trovare pronti?

 “Credo che ci voglia una buona programmazione della stagione autunno/inverno, perché ormai abbiamo imparato che sostanzialmente siamo di fronte ad un virus che ha un andamento prevalentemente stagionale ed è inevitabile che in autunno avremo la coincidenza di due fattori: il primo sarà la ripresa stagionale intorno ad ottobre/novembre della circolazione del virus; il secondo è che questo andrà a coincidere con un calo delle coperture vaccinali. Oggi noi ci troviamo nella situazione migliore, nel ‘best scenario’, perché ci avviamo verso la stagione primaverile e anche la copertura vaccinale è sostanzialmente massimale. In autunno succederà invece il contrario e siccome con la verosimile fine dello stato di emergenza la gestione della vaccinazione passerà interamente alle Regioni, credo sia opportuno dal punto di vista delle strategie di programmazione sanitaria che la politica si occupi ora, in questo periodo di tregua, di quello che dovrà essere fatto in autunno. Questo per evitare di tornare a inseguire il virus nel momento in cui potrebbe esserci una ripresa dell’ondata. Magari questo non succederà, ma credo che sia più importante programmare azioni preventive piuttosto che ritrovarsi poi a gestire nuovamente delle situazioni di affanno rispetto alle misure da mettere in campo”.

 – Il Green pass è stato uno strumento utile per portare i cittadini a vaccinarsi. Oggi ha ancora senso o pensa che abbia esaurito il suo compito?

 “Il Green pass rientra tra gli strumenti di ‘spinta gentile’ alla vaccinazione. È evidente che è stato introdotto in un momento in cui noi pensavamo che avesse anche una importante protezione sulla diffusione del virus, cosa che poi abbiamo visto non essere così perché la protezione vaccinale nei confronti dell’infezione sostanzialmente declina abbastanza rapidamente e parte da percentuali che sono più basse rispetto a quelle della malattia grave. È anche evidente che adesso stiamo andando verso una tregua della circolazione virale e bisognerà decidere cosa fare di questo strumento, potrebbe essere completamente abolito e cancellato o potrebbe essere mantenuto, ma ci potrebbe essere anche una soluzione intermedia, con una sospensione temporanea, per non perdere quell’architettura anche di tipo informatico che in relazione alle esigenze che potranno verificarsi il prossimo autunno potrebbe permettere o di riattivarlo oppure di prenderlo come base per definire finalmente quella che, a mio avviso, è una delle situazioni inevitabili nel momento in cui si entra in una pandemia, cioè definire un obbligo vaccinale di popolazione. Secondo me questo andrebbe a sanare tutta una serie di incongruenze che ci sono state anche dietro la gestione del Green pass.”.

– Lei avrebbe optato per l’obbligo vaccinale e non per il Green pass, quindi? “Ad un certo punto sì, diciamo che a partire dall’inizio dell’autunno l’obbligo vaccinale avrebbe sicuramente risolto tanti problemi e reso anche più semplice la gestione di una serie di aspetti. Di fatto noi siamo partiti in ritardo con una serie di problematiche e le abbiamo avute anche per il ritardo delle coperture vaccinali soprattutto in alcune fasce d’età, che con Omicron inevitabilmente hanno portato ad un nuovo riempimento degli ospedali. L’obbligo ovviamente è una decisione politica e il dibattitto che c’è stato in sede  di consiglio dei ministri, quando si è stabilita la soglia degli over 50, sappiamo che è stato frutto di un ragionevole compromesso, ma io aggiungerei ‘a ribasso’, perché di fatto alla fine si è scelta una soluzione probabilmente non ottimale, tra l’altro entrata in vigore anche un po’ tardi rispetto al periodo dell’anno”.

 
– Ormai i vaccini ci sono da più di un anno, eppure tanti italiani ancora non si sono vaccinati. Lei pensa che siano ancora convincibili o sia, a questo punto, impossibile? Per intenderci: andrebbe a cena con un no-vax tentando, numeri alla mano, di convincerlo? “In questi mesi ho fatto tanta opera di convincimento non soltanto pubblica ma anche privata, nel senso che in questi mesi ci hanno scritto molte persone per essere rassicurate sul vaccino. E ci siamo resi conto che, superata la fase iniziale della prenotazione volontaria, dove tutti quelli che si volevano vaccinare lo hanno fatto, poi dal punto di vista istituzionale è un po’ mancata la ‘fase 2’ della campagna vaccinale, cioè le cosiddette strategie di comunicazione  e persuasione individuale che servono a convincere gli indecisi. Alcune persone hanno accettato questo tipo di comunicazione individuale e si sono convinte a vaccinarsi.  È chiaro che più passa il tempo  più si arriva a quello zoccolo duro di resistenza ideologica che, di fatto, è praticamente impossibile da scalfire ulteriormente, proprio perché si tratta di persone con ideologie no-vax assolutamente non modificabili. Credo che l’esempio del tennista Djokovic sia assoluto, cioè ‘io rinuncio a tutto perché del mio corpo faccio quello che voglio’. Bisognerebbe entrare nel merito di altri aspetti della psicologia dell’individuo, ma in ogni caso non è il colloquio motivazionale a convincere la persona a vaccinarsi. Quello che possiamo fare come operatori del settore è provare a convincere gli indecisi, ma la frangia della resistenza assoluta, composta da persone che vedono nella vaccinazione qualcosa di invasivo all’interno del proprio corpo  oppure addirittura una vessazione di tipo politico/istituzionale, è chiaro che quello non è un problema risolvibile. La percentuale è comunque molto bassa, si aggira intorno al 3,4 o 5% dell’intera popolazione, non credo oltre, esclusa ovviamente la fascia pediatrica”.

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