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ROMA – Forte l’attesa per l’entrata in vigore domenica 19 gennaio dell’accordo tra Israele e Hamas, raggiunta a Doha grazie alla mediazione del Qatar, di Stati Uniti e di Egitto. L’intesa, raggiunta dopo giorni di intensi e complessi colloqui, dovrebbe permettere di applicare un cessate il fuoco dopo 476 giorni di combattimenti che hanno provocato 46mila morti e 110mila feriti nell’enclave palestinese. Se le armi taceranno, e le truppe israeliane lasceranno la Striscia, Hamas restituirà anche gli ostaggi sequestrati nell’attacco del 7 ottobre 2023.
Una notizia che ha innescato entusiasmo sia tra i palestinesi che tra i familiari dei rapiti – alcune delle quali non sanno se i loro cari siano vivi o no – ma non ha comunque fermato i raid dell’esercito israeliano: già decine le vittime palestinesi dall’annuncio ufficiale dell’intesa, nella serata di mercoledì.
“La fine della guerra non significa la fine del conflitto“, le cui cause “vanno affrontate alle radici, in modo serio e credibile” avvertono i vescovi cattolici di Terra Santa in una nota. Secondo i presuli, si deve ripartire dalla “volontà di riconoscere reciprocamente la sofferenza l’uno dell’altro”, promuovendo “un’educazione mirata alla fiducia, che porti al superamento della paura dell’altro e della giustificazione della violenza come strumento politico”.
Se tuttavia il cessate il fuoco viene salutato come un dato di fatto – anche grazie alla conferma giunta dal presidente eletto Donald Trump, che si insedierà lunedì prossimo – la strada sembra tutt’altro che spianata, e non solo perché l’accordo si articola in tre fasi, le ultime due delle quali ancora da definire. Il problema è che tra le parti manca la fiducia. Da un lato, la prospettiva di un ritiro delle forze israeliane da Gaza spacca il governo Netanyahu, formato anche da componenti dell’estrema destra che non hanno intenzione di mettere la vita degli ostaggi davanti alle “esigenze di sicurezza” di Israele, né di rinunciare alla prospettiva di portare insediamenti coloniali anche nella Striscia, come proclamato a più riprese dall’ottobre 2023.
Per quanto riguarda Hamas, quindi, le preoccupazioni riguardano l’effettiva uscita delle truppe israeliane da Gaza, anche alla luce delle 240 violazioni del cessate il fuoco da parte di Tel Aviv che denuncia invece il governo libanese da quando l’intesa è stata raggiunta a fine novembre. C’è poi il nodo dell’identità dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane di cui Hamas chiede la liberazione e su cui Tel Aviv vuole avere l’ultima parola.
Se tutti questi ostacoli saranno superati, si potrà sperare nell’implementazione della fase uno, che durerà sei settimane e vedrà il rilascio di 33 dei circa 94 ostaggi israeliani ancora in mano ai combattenti. Priorità a bambini, donne, anziani e malati. Inoltre, le forze israeliane inizieranno la ritirata da est, consentendo il ritorno a casa delle famiglie palestinesi sfollate. Israele ha inoltre acconsentito all’ingresso dei camion di aiuti umanitari alla popolazione: secondo i media internazionali, ci sono circa 80mila tonnellate di cibo nei convogli che attendono di poter entrare nella Striscia, utili secondo gli analisti a sfamare un milione di persone sugli oltre due milioni di abitanti.
Per questo le autorità del Qatar invitano le parti “alla calma”, nella speranza che non accada nulla che possa far saltare l’ennesimo tentativo di fermare la guerra, tornata a divampare 15 mesi fa.
Antony Blinken, segretario di Stato americano uscente, ha evidenziato che ora è il momento del “coraggio politico e degli sforzi per raggiungere gli obiettivi: una transizione per Gaza, uno Stato palestinese e la normalizzazione della regione”, dove, grazie agli alleati “abbiamo forgiato una nuova realtà”. L’amministrazione di Joe Biden ha cercato di dare un impulso all’accordo, come ultimo atto del suo mandato ed eredità politica da capitalizzare per i democratici.
Spetterà tuttavia a Trump lavorare al rispetto dell’intesa, anche per arrivare all’annunciata riunificazione politica di Gaza e Cisgiordania sotto l’ombrello dell’Autorità nazionale palestinese e il sostegno dei Paesi arabi. Lo ha ribadito a più riprese anche il governo di Giorgia Meloni, pronto anche a inviare uomini per prendere parte a un’eventuale forza di interposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Il passo successivo sarà la creazione di uno Stato di Palestina, ma come ha detto il ministro israeliano Gideon Sa’ar, in visita a Roma martedì e mercoledì scorsi, “mai con Hamas”. L’organizzazione, iscritta nella lista dei gruppi terroristi da Stati Uniti ed Unione europea, ha subito perdite militari, ma secondo alcuni non in termini di seguito politico, rivendicando in queste ore “il successo della resistenza”. Da tempo l’Autorità nazionale palestinese, guidata dal partito Fatah, incontra le critiche di una parte dei palestinesi per non aver più organizzato libere elezioni dal 2005.
L’assetto politico palestinese potrebbe tuttavia essere influenzato anche dai nuovi equilibri mediorientali, che riguardano in particolare gli alleati dell’Iran: la guerra che Israele ha condotto contro Hezbollah, in Libano, ha favorito la fine dell’impasse politica in cui Beirut versava da alcuni anni e infine sono stati nominati il presidente della Repubblica e il primo ministro, aprendo così la strada a future elezioni.
In Siria, il rovesciamento del presidente Bashar Al-Assad ha visto l’arrivo di un governo ad interim che potrebbe far cadere le sanzioni economiche e restituire stabilità a un Paese che prova a rialzarsi dopo 14 anni di guerra civile.
Restano però Yemen e Iran. Il primo continua a compiere attacchi verso il territorio di Israele e non si fermerà finché Tel Aviv non deporrà le armi a Gaza. Quanto a Teheran, si aspetta l’arrivo di Trump, che ha già promesso sanzioni sull’export di petrolio iraniano. In attesa di capire il suo nuovo ruolo in Medio Oriente e nei rapporti con l’Europa, il presidente Masud Pezeshkian ha firmato un “accordo bilaterale di partenariato strategico globale” con la Russia di Vladimir Putin.
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