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Sono 301 le donne migranti accolte dai centri anti-violenza D.i.Re

Sono 71 i centri antiviolenza in 17 regioni italiane che fanno parte del progetto 'Leaving violence. Living safe' portato avanti dal 2017 in partnership con Unhcr

Pubblicato:15-12-2020 17:13
Ultimo aggiornamento:15-12-2020 18:22

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ROMA – Sono ben 301 le donne migranti rifugiate e richiedenti asilo accolte tra il 2018 e il novembre 2020 nei 71 centri antiviolenza della rete D.i.Re che in 17 regioni italiane hanno partecipato al progetto ‘Leaving violence. Living safe‘ portato avanti dal 2017 in partnership con Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per migliorare la risposta alla violenza sessuale e di genere Sexual and Gender-Based Violence (Sgbv) subita da donne rifugiate e richiedenti asilo.

I dati del monitoraggio sul progetto “che andranno ulteriormente valutati e approfonditi” sono stati presentati stamattina da Laura Pasquero, coordinatrice del monitoraggio e della valutazione di ‘Leaving violence. Living safe’ per Donne in Rete contro la Violenza. “Sono oltre 440 le donne coinvolte in attività informative dei centri antiviolenza (cav), nel contesto di focus group e discussioni svolte nei cav e nelle strutture di accoglienza, ma anche all’aperto- continua Pasquero-. Il progetto ha formato 50 mediatrici culturali di 17 nazionalità, 42 di loro sono state avviate a tirocinio in 29 cav”. E ancora, sono stati “650 i partecipanti appartenenti a decine di organizzazioni del territorio, enti pubblici e privati, che si sono riuniti con noi per affrontare il tema della violenza sulle donne rifugiate e richiedenti asilo” in 20 eventi di networking che si sono svolti tra il 2018 e il 2020. Ben 179 le partecipanti dei centri D.i.Re alle formazioni di metodologia di lavoro con donne rifugiate e richiedenti asilo e altre 247 quelle che sono state coinvolte in altri eventi di formazione. Sono stati poi elaborati un manuale di metodologia in italiano e in inglese, quattro prodotti audiovisivi (un cortometraggio animato e tre video brevi, e due toolkit per la facilitazione di focus group con donne richiedenti asilo e rifugiate.

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Per quanto riguarda il profilo delle donne accolte, invece, dal monitoraggio è emerso che “il 67% proviene dalla Nigeria– fa sapere Pasquero- il 9% dagli altri Stati dell’Africa Occidentale, il 6% dall’America di Latina e dei Caraibi, il 5% dall’Africa Orientale” e, a seguire, da “Medio Oriente e Asia meridionale. Il 37% arriva ai cav dai centri di accoglienza, il 30% da servizi socio-sanitari e organizzazioni del territorio, il 10% dalle Commissioni territoriali e il 5% grazie alle mediatrici, che fungono da ponte”. Sono quella fisica e psicologica le forme di violenza più diffuse, seguite da violenza sessuale, aborti forzati e altri abusi. Emergono nelle narrazioni delle donne anche “la tratta e la violenza economica“, mentre tra gli autori di violenza ci sono “per lo più partner o ex partner, trafficanti e sfruttatori e, in misura minore, familiari e attori armati in contesti di transito e di origine”.

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Tra gli elementi più preoccupanti c’è il continuum di violenza che lega l’esperienza delle donne migranti dai Paesi di origine a quelli di arrivo. “Nel 2019-20 una donna su due (il 51%) svela di aver subito violenza in Italia, il 35% nei Paesi di transito, il 33% in quelli di origine- sottolinea Pasquero- ma si tratta sono dati elaborati sui racconti delle donne che hanno scelto di raccontare”. Diverse le barriere che si frappongono tra le rifugiate e richiedenti asilo e l’accesso ai cav: “C’è un primo aspetto che riguarda la non visibilità dei centri antiviolenza– osserva la coordinatrice del monitoraggio-. Molte donne e comunità non li conoscono e li identificano con dei servizi istituzionali”, e succede anche che “non vengano considerati come attori che si occupano di supporto e di aiuto alle popolazioni migranti”.

Accanto alla mappatura delle barriere, però, sono state anche mappate buone pratiche che facilitano l’accesso di queste donne ai cav: “I centri che hanno una presenza stabile sui social hanno avuto più accessi- spiega l’esperta-. Fondamentale, poi, è che le mediatrici culturali siano presenze stabili e formate, che vengano diffusi materiali informativi multilingue nei luoghi di passaggio delle donne e che sia predisposta una comunicazione con le donne ‘focal point’ nelle strutture di accoglienza”, oltre a “spiegare che i cav non sono servizi”. Utili anche attività di avvicinamento più creative, come la creazione di “sportelli di inserimento lavorativo per donne migranti” e un maggiore lavoro di rete, che si basi su “protocolli di intesa, collaborazione con questure e prefetture e con servizi per persone migranti”, creando “ponti con le comunità”. Tra le prassi promettenti individuate da operatrici e mediatrici, “l’apertura di case di semi-autonomia post-percorso”, un “accompagnamento alla formazione professionale” unito all’offerta di “lezioni di italiano” e alla possibilità di realizzare accordi con l’anagrafe per residenze fittizie presso i cav per facilitare l’accesso ai diritti”.

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“Se l’anno scorso la parola chiave che ha attraversato il progetto era ‘metodologia adattata’, quest’anno è ‘rete’ a livello bidimensionale: la rete dei cav D.i.re e la rete locale con cui i diversi cav si interfacciano”, spiega Maria Elena Cirelli, coordinatrice del progetto per D.i.Re assieme a Rebecca Germano. “Il bisogno documenti, di un’abitazione, di un accesso al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari, all’inclusione sociale e al supporto nei percorsi di uscita dalla violenza, richiede che ci siano reti locali forti in cui gli attori si conoscano, un lavoro sinergico con un modello operativo condiviso e strutturato- continua Germano-. Le raccomandazioni affrontano il tema della rete locale in termini di opportunità, ma delineano anche proposte di azioni per superare le barriere. Ci auguriamo che questo percorso sia condiviso e possa aiutarci a strutturare un sistema sempre più sinergico, con le maglie della rete abbastanza strette per riuscire a non lasciare indietro nessuna”.

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