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L’occupazione femminile prima e dopo la pandemia nel convegno Acli

Alla sede nazionale di Roma è stato organizzato il convegno 'Donne, lavoro e pandemia'. Il presidente Manfredonia: "Lo smart working rischia di essere una trappola"

Pubblicato:14-10-2021 10:35
Ultimo aggiornamento:14-10-2021 10:36
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Di Laura Monti

ROMA – “I dati Istat di febbraio 2021 dicevano che l’occupazione femminile è quella che ha sofferto di più a causa della pandemia, ma c’è un problema sociale: il maggior onere di cura è affidato alle donne e dobbiamo capire come rivedere questa convenzione”. Così Emiliano Manfredonia, presidente nazionale Acli, ha sintetizzato nel suo intervento di apertura il tema del convegno ‘Donne, lavoro e pandemia‘, organizzato dal Coordinamento Donne Acli e tenutosi ieri pomeriggio a Roma presso la sede nazionale delle Acli.

“Anche lo smart working rischia di essere una trappola – ha aggiunto Manfredonia – finché non c’è un’equa ripartizione del lavoro di cura fra uomo e donna e un altro dato importante è quello della violenza sulle donne, con le richieste di aiuto che a marzo 2020 sono aumentata del 33%“. Il proposito del Governo di aumentare l’occupazione femminile del 4% per Manfredonia “è modesto, è un inizio, un dato che non ci porta alla media europea, mentre il disegno di legge approvato oggi sulla parità salariale va indagato. Se per gli uomini la costruzione di un nucleo familiare è ininfluente o vantaggiosa dal punto di vista della carriera, per le donne non è così”.


Gli ha fatto eco Chiara Volpato, responsabile del Coordinamento donne Acli. “È chiaro che sostenere l’occupazione femminile significa intervenire con misure di welfare. Abbiamo famiglie sempre più piccole e una natalità sempre più ridotta. Le giovani donne vivono una contesa tra il desiderio di mettere al mondo il proprio talento o un figlio e abbiamo aspettato troppo per dare risposte. A questo e ad altri interrogativi – ha concluso – vorremmo fare chiarezza, anche in vista del Pnrr”.

Paola Profeta, docente di Scienza delle finanze alla Bocconi di Milano, ha presentato i risultati della ricerca ‘COVID 19: la crisi più dura per le donne in un Paese ancora senza parità’, a cura di Laboratorio Futuro e dell’Istituto Toniolo: “I dati europei del 2019 mostrano un ritardo del nostro Paese in tema di occupazione femminile. Siamo intorno al 50%, penultimi, e al Sud diventa una donna su tre, nonostante l’obiettivo dell’Europa fosse del 60% entro il 2010 e del 70% entro il 2020. La pandemia – ha detto – è stata un’aggravante che ha determinato una ‘She- session’, una recessione al femminile”. Il fenomeno, ha spiegato la docente, “è molto significativo, perché nelle precedenti crisi economiche i settori a soffrire di più erano stati l’industria, le costruzioni, la finanza e altri a dominanza di maschile. Ma la pandemia ha colpito soprattutto il settore dei servizi dove è impiegato l’84% delle donne“.

Alla luce del dato sul tasso di laureate in Italia, al di sopra di quello maschile, la docente ha invitato a chiedersi “perché sul mercato del lavoro la situazione è totalmente ribaltata”. Il primo tema è, per la docente, quello delle discipline Stem, sempre più importanti nel mercato del lavoro ma meno frequentate dalle donne: “Siamo andate a indagare quali siano le motivazioni e dai nostri sondaggi è emerso che le donne dichiarano di aver avuto più difficoltà nello studio di materie scientifiche”. Non solo: “Ci sono dei veri e propri stereotipi, visto che almeno il 20% degli uomini e il 16% delle donne ritiene che le donne siano meno portate degli uomini per queste discipline, ma sappiamo da studi accademici che la componente predominante non è la natura ma il contesto”. C’è dunque un divario, “che si riflette in mancanza di opportunità per le donne”.

Gli stereotipi di genere, per Profeta, sono emersi con molta forza anche in pandemia, quando “più di due donne lavoratrici su tre hanno dichiarato di aver dedicato più tempo al lavoro domestico e di cura della famiglia. Non era scontato che il divario si sarebbe aggravato – ha commentato infine la docente – anzi lo smart working poteva portare a un maggiore bilanciamento”.

Anche la giornalista Tiziana Ferrario ha commentato i risultati della ricerca, soffermandosi sulle domande poste agli uomini: “‘Perché le donne guadagnano meno?’ Abbiamo chiesto loro, e la maggioranza ha risposto che è perché sono discriminate. Vuol dire che la percezione del paese è un po’ meno maschilista di prima“. Ferrario ha colto l’occasione per parlare del recente disegno di legge sulla parità salariale, dicendo che “di fatto esiste solo in Islanda, che dal 2019 l’ha applicata con delle multe. Noi avremo una certificazione per le aziende ma se non ci sono le sanzioni, si lascia ancora troppo spazio di manovra a una non applicazione”.

Tornando a esporre la ricerca, Ferrario ha mostrato le risposte alla domanda sul perché le donne abbiano meno accesso a ruoli di responsabilità e anche qui, “una grossa percentuale di uomini dice che è perché le donne sono discriminate. Gli uomini pensano anche che sia molto giusto aumentare gli asili nido, quindi non c’è la percezione – ha proseguito – che le donne debbano solo stare a casa con i bambini”. In questo, “il Pnrr dovrebbe darci una mano: ci sono 4 miliardi destinati agli asili nido ma so che c’è dibattito perché per alcuni non sono sufficienti e c’è addirittura chi propone che la scuola dell’obbligo sia da 0 a 18 anni”.

Per quanto riguarda un ampliamento del congedo paternità obbligatorio, “più del 40% degli uomini lo ritengono molto giusto e anche qui c’è un’evoluzione nel pensiero degli uomini. La Spagna è un paese simile al nostro e da quest’anno ha una legge sulla paternità obbligatoria di 16 settimane, perché serve a eliminare discriminazioni al momento dell’assunzione. Se lo fa la Spagna – si è chiesta Ferrario – perché non possiamo farlo anche noi? Il padre non è di aiuto alla madre, è allo stesso livello, ma questo salto culturale in Italia non c’è stato”.

Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha sottolineato l’importanza dell’educazione, per rispondere a domande “che sono rimaste in sospeso da troppo tempo, mentre invece dovremmo sbloccarci da questa nostra situazione anomala, adesso anche con i fondi del Pnrr”. Anche Rosina ha esposto i dati di una ricerca fatta con Linda Laura Sabbadini sull’effetto di un modello educativo in cui si facesse attenzione a mostrare una ripartizione equilibrata dei ruoli fra maschio e femmina: “Le bambine cresciute così si aspettano che i mariti collaborino e anche i maschi danno per scontato si debba collaborare”. Inoltre, “la capacità di crescere i figli in maniera equa era più alta fra le madri che lavoravano, non necessariamente fra quelle col più alto titolo di studi. È un punto interessante – ha detto il professore – che fa capire che l’occupazione femminile non è il punto di arrivo ma parte di un percorso”.

Per quanto riguarda gli altri paesi europei, Rosina ha mostrato il rapporto fra numero di figli e occupazione femminile: “Prima più figli si facevano, meno donne lavoravano, ma adesso in paesi come la Svezia o la Francia, in cui si è investito molto in politiche di conciliazione e sostegno alla famiglia, è il contrario. Dopo aver integrato politiche di occupazione femminile e di conciliazione, hanno tassi di fecondità tra i più alti in Europa ma anche un’alta occupazione femminile. Noi siamo in basso in entrambi i campi”. Pertanto, Rosina ha sottolineato l’importanza di una ampia copertura di asili nido a livello nazionale, tornando sulla questione dell’obbligo scolastico: “Da 3 a 5 anni non c’è obbligo ma abbiamo una frequenza altissima perché funziona”.

Sul tema dello smart working, Rosina ha messo in guardia dal rischio che “diventi come il part-time, aumentato solo per ridurre il costo della manodopera ma non per il benessere della persona, che comunque influisce anche sulla produttività. Anche lì siamo anomali: in Europa i 2/3 del part-time è volontario, in Italia è imposto“. In generale, per Rosina, le politiche di welfare aziendale “sono fondamentali e devono proporre una conciliazione che sia legata alla condivisione: nelle coppie fra i 25 e i 44 anni occupati vediamo che il 65% del carico del lavoro di cura è ancora femminile. Ma nei paesi occidentali in cui l’attività di cura trova maggiore supporto con il welfare e il contributo maschile – ha concluso – sono migliori sia le discriminazioni di genere sia le condizioni economiche”.

Al convegno è intervenuta anche Simona Malpezzi, capogruppo del Partito democratico in Senato, ricordando la legge del 2017 in base alla quale “i servizi educativi, e quindi anche gli asili nido, non potevano essere considerati più come qualcosa in carico soltanto ai servizi sociali, anche perché i dati ci dicono che un bambino, prima si avvicina al mondo della scuola meno possibilità avrà di essere disperso”. Per ora, però, ha detto Malpezzi “abbiamo affrontato dei mondi a comparti stagni, ma con il Pnrr possiamo attuare un cambiamento a tutti i livelli”. A tal proposito, “il tema dell’orientamento scolastico è fondamentale: dovrebbe partire dal momento in cui il bambino viene inserito in un contesto educativo. Nessuno ne parla ma secondo me è uno degli aspetti più importanti del Pnrr”. Tuttavia, per Malpezzi, “la politica italiana è in ritardo. È un sostantivo femminile fatto con tempi maschili“.

“Durante la pandemia c’è stato bisogno di fare una fotografia di quanto accadeva alle donne e abbiamo fatto una mozione al Senato che ha chiesto al Governo di occuparsi in maniera integrata di più aspetti”, ha aggiunto la senatrice Donatella Conzatti (Italia Viva). “La ministra Bonetti ha quindi scritto una strategia per la parità di genere con cinque pilastri: tempo, competenze, lavoro, reddito e potere. Per gli asili nido sono stati impegnati 4,6 miliardi del Pnrr, un grandissimo investimento. Rendiamone intanto obbligatoria l’offerta”. Conzatti ha poi ricordato che presto “ci sarà un assegno unico per i figli che verrà dato a tutti i bambini come dote economica per pagarsi i servizi, dal nido in poi“.

Per quanto riguarda lo smart working, la senatrice ha sottolineato che “quello in pandemia non è stato vero smart working. Eravamo in emergenza e abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, ma il modello a cui dobbiamo tendere è una cosa molto diversa. La cosa importante – ha aggiunto – è stato il passaggio culturale: prima meno del 5% dei lavoratori italiani lavorava davvero in smart working, in pandemia ci hanno provato in 7 milioni e abbiamo capito che si può fare“.

Anche Livia Ricciardi, componente del Dipartimento mercato del lavoro della Cisl, ha affrontato la questione smart working, definendolo importante “per sganciare la presenza fisica in uno spazio fisso dal lavoro e legarlo invece al risultato. Questo aiuterebbe le donne, anche se bisogna evitare che diventi uno ‘smart working di genere’, come è stato per il part time usato per lo più dalle donne”. Per Ricciardi, il potenziamento dei servizi e degli strumenti di conciliazione “non sono in contrapposizione. Una contrapposizione denota una visione di parità tutta spostata sulla defamilizzazione del lavoro di cura. Noi della Cisl – ha detto – consideriamo fondamentale un aumento dei servizi di cura per bambini e anziani. Tuttavia, riteniamo che non sia sufficiente esternalizzare il lavoro di cura. È altrettanto importante condividere il lavoro di cura fra i generi, come ha detto il professor Rosina”. Per questo, “è fondamentale il il congedo paternità obbligatorio e non cedibile, ma non i nostri 10 giorni che sono una cosa ridicola. Gli strumenti sono tanti. La conciliazione – ha concluso Ricciardi – ha due gambe: implementazione servizi di cura e tempi e luoghi del lavoro più flessibili”.

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