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In tribunali, giornali e social gli stereotipi sulla violenza sulle donne viaggiano in cerchio

La catena di rimpalli circolare sbilancia il ruolo delle vittime e quello degli autori della violenza e crea una percezione errata del fenomeno in cui a sembrare colpevoli sono le donne

Pubblicato:14-10-2020 17:21
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:03

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ROMA – Quando si parla di violenza maschile contro le donne giornalisti, giudici, social media e web tengono la narrazione sotto scacco, facendo viaggiare stereotipi e pregiudizi in una catena di rimpalli circolare che sbilancia il ruolo delle vittime e quello degli autori della violenza e crea una percezione errata del fenomeno in cui, ancora una volta, a sembrare colpevoli sono le donne. Proprio per questo i giornalisti sono chiamati a “spezzare e interrompere la spirale del pregiudizio che richiama la spirale della violenza” dichiara Manuela Perrone, giornalista inviata parlamentare de ‘Il Sole 24 Ore’, nella terza giornata del programma di formazione per giornalisti del ‘Progetto Step-Stereotipo e pregiudizio: per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media‘, promosso dall’universita’ della Tuscia in collaborazione con l’ong Differenza Donna e il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

A richiamare il concetto di circolarità della responsabilità è Ilaria Boiano, avvocata penalista esperta in diritto dell’immigrazione e protezione internazionale di Differenza Donna, che sottolinea come nei casi di violenza di genere “gli stereotipi compromettano l’effettività dei diversi livelli in cui si concretizza l’accesso alla giustizia, l’accertamento dei fatti e, di conseguenza, della responsabilità”, incidendo “sulle prove che si ammettono, sulle modalità con le quali si procede all’istruzione di un processo, sulla percezione dei giudici rispetto ai fatti e sull’attendibilità” dei soggetti coinvolti nel procedimento. Ecco che allora le campagne diffamatorie a mezzo stampa architettate da uomini in vista che tentano di veicolare lo stereotipo della donna che mira al patrimonio dell’ex marito soltanto perchè l’ex moglie ha richiesto un mantenimento adeguato per i figli, vengono amplificate nei tam tam social, andando a costruire quel ‘senso comune’ che “alimenta nei giudizi civili delle scelte di esercizio di diritti o di attivazione di determinati istituti”, sottolinea Boiano, che mette in evidenza il ruolo chiave del web nei cosiddetti ‘hate crime’, crimini d’odio, che colpiscono maggiormente le donne “e le donne impegnate in politica”. Un caso su tutti, preso come esempio da un “recente studio dell’Unione Interparlamentare dedicato al tema della violenza sessista contro le donne parlamentari, è quello dell’onorevole Laura Boldrini“, bersaglio di commenti sessisti e messaggi d’odio ripetuti, alcuni dei quali portati in giudizio. Come la frase condivisa su Facebook da Matteo Camiciottoli, sindaco di Pontinvrea, chiamato a rispondere dell’accusa di diffamazione per aver scritto un post in cui proponeva di far scontare agli stupratori di Rimini i domiciliari a casa di Laura Boldrini, sostenendo che ciò avrebbe potuto “metterle il sorriso”, e poi condannato al pagamento di ventimila euro di multa, più altri ventimila euro di risarcimento all’ex presidente della Camera. 

Nel ‘victim blaming’, invece, spesso la vittimizzazione secondaria arriva direttamente dai media. Come nello stupro di San Valentino alla Caffarella, quando ci fu la “pubblicazione dei nomi dei minori e di informazioni che rendevano riconoscibili i luoghi e le famiglie- ricorda Boiano- o il caso delle due ragazze americane a Firenze, in cui, a fronte del clamore mediatico che quel caso ebbe nelle prime fasi” la notizia della condanna è quasi passata sotto silenzio. Un meccanismo che non si inceppa neppure quando di mezzo ci sono poco più che bambine. “Il caso dello sfruttamento sessuale dei Parioli“, ridotto dalla stampa alla “vicenda delle baby squillo” è, in tal senso, paradigmatico. “Torna lo stereotipo delle donne furbe, di ragazzine che approfittavano della situazione per crearsi un sistema di privilegi, stigmatizzati perché miravano a un benessere superfluo. Tutto questo ha una ricaduta a livello giudiziario gravissima- osserva l’avvocata di Differenza Donna- tant’è che facciamo fatica ad avere condanne per sfruttamento della prostituzione, perché prevale”, anche nei Tribunali, “questa lettura”.


La circolarità delle responsabilità è ancora più evidente nel travaso di senso che dalle notizie dei media ufficiali giunge ai social media e viceversa. “L‘osservatorio Vox Diritti, messo in piedi da un gruppo di professioniste che fanno una sorta di monitoraggio sull’intolleranza, ha verificato che su 215.377 tweet estratti per la ricerca 55.347 riguardano le donne- spiega Flavia Landolfi, giornalista de ‘Il Sole 24 Ore’- I picchi di tweet contro le donne, in cui sono state utilizzate parole intolleranti (tutte a sfondo sessuale, ndr), sono stati matchati con eventi a loro giudizio scatenanti di questi picchi”, come casi di femminicidio o “il Congresso delle famiglie di Verona”. Secondo uno “studio UnWomen che monitora su scala quinquennale la presenza delle donne all’interno delle notizie in tutto il mondo, poi, si è stimato che i media mondiali dal 2000 al 2015 hanno raccontato di donne nel 24% del totale delle notizie”. 

Un’assenza del protagonismo femminile che fa il paio con il rafforzamento degli stereotipi, che, in Italia, corre soprattutto sul web. “Secondo lo stesso studio nel nostro Paese le notizie che sfidano gli stereotipi sono solo il 6%, quelle che li rinforzano il 52%, l’informazione neutra il 41%”, continua Saccà. Numeri che schizzano se si prende in considerazione internet, dove le “notizie che rinforzano gli stereotipi sono l’84%. Evidentemente- osserva ancora la giornalista- esiste uno schermo sulle notizie tradizionali, ma quando entriamo nel mondo del social media e di internet le barriere crollano“. Delle conseguenze della cosiddetta “vittimizzazione secondaria” sulla vita delle donne che subiscono violenza parla Sabrina Frasca, sociologa e responsabile della formazione di Differenza Donna: “Con un giudizio morale si va a rinforzare il trauma che io vittima di violenza sto vivendo, si amplificano i danni- spiega- Ma le conseguenze sono anche sociali, perchè si va ad alimentare una cultura stereotipata fatta di giudizi a priori e a costruire un senso e un’opinione comune sulla responsabilità della violenza. Nascondere le donne, metterle nell’angolo buio come se fossero responsabili della violenza, fa parte di una narrazione a cui noi assistiamo quotidianamente”. Cruciale, invece, è basare il racconto sul riscatto: “Noi ci teniamo che la donna racconti la sua storia col volto scoperto, una volta chiuso il percorso di protezione, e che lo faccia a testa alta perché non sentendosi più responsabile della violenza che ha subito la può raccontare all’esterno senza rischiare un’ulteriore rivittimizzazione”. Basta dunque con racconti giornalistici indulgenti, che tentano di suscitare empatia con l’autore della violenza, come nel caso del femminicidio di Elisa Pomarelli in cui l’assassino era stato definito da un quotidiano ‘gigante buono’. “Questo tipo di narrazione ha un effetto drammatico sulla società- denuncia Frasca- perché quasi ci si identifica con chi commette la violenza”, mentre “il recupero di un trauma da parte della vittima passa necessariamente attraverso il riconoscimento istituzionale”. E conclude con un appello: “Il mio invito come operatrice è di pensare sempre alle donne che leggono le storie, che vedono le immagini che noi pubblichiamo, al messaggio che tutti i giorni chi agisce o subisce violenza ascolta, perché ha un impatto reale sulla loro vita”.

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