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Cultura, Cristina Ali Farah: “Le mie parole ponti con l’Africa”

La scrittrice italosomala alla 'Dire': "Serve una contronarrazione"

Pubblicato:14-09-2018 09:29
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 13:33

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ROMA – “Sì, credo serva una contronarrazione” risponde Cristina Ali Farah, lo sguardo assorto, come provasse a vedere più in là, oltre il rumore di mille parole. Scrittrice e poetessa, somala e italiana, nata a Verona ma cresciuta a Mogadiscio, incontra l’agenzia ‘Dire’ al Maxxi di Roma in una serata di musiche e letture con il respiro dell’Africa. Uno dei suoi racconti, ‘Interamente’, era apparso già nel 2003 su ‘El Ghibli’, prima rivista italiana dedicata alla letteratura della migrazione e della diaspora: l’inizio di un percorso continuato con il Premio Elio Vittorini e poi nuove collaborazioni, romanzi e sperimentazioni. Con la ‘Dire’ Ali Farah parla della Scuola italiana frequentata a Mogadiscio e dell’incomprensione del suo passato da parte di chi, quando a 18 anni si era trasferita di nuovo in Italia, non riusciva a capire il perché di quel suo italiano perfetto. Legami con il passato, rimossi o comunque ignorati; in un Paese, l’Italia, che appare impreparato ad accogliere il futuro in un mondo ormai inevitabilmente interconnesso. “Sento”, avverte Farah, “una retorica di aggressività e violenza”.

– Cristina, lei è tornata in Italia dopo lo scoppio della guerra civile in Somalia nel 1991, quando aveva 18 anni. Che Paese trovò?

“Sono nata a Verona ma di fatto sono cresciuta a Mogadiscio. La mia memoria, la mia infanzia, appartiene a quella realtà. Mia madre è italiana e a Mogadiscio ho studiato alla Scuola italiana. In Italia sono arrivata una prima volta a 18 anni e poi a 20, per restarci. Mi sono trovata di fronte a una società che non sapeva niente del mio passato, anche della mia conoscenza della lingua, che per me invece era un fatto scontato. Mio padre era arrivato in Italia negli anni ’70, grazie a una delle borse di studio offerte dal governo italiano nelle sue ex colonie. Il fatto stesso che io esista non è un caso. Tra Italia e Somalia c’è un legame storico. Ma l’Italia ha rimosso la sua storia coloniale. E oggi sembra non esserci posto per capire questi arrivi di migranti e questo futuro nuovo, che in realtà affonda le radici nel passato”.

– Com’è nata l’esigenza di scrivere?

“All’inizio è stato un esercizio di riflessione, quotidiano, sul mondo che vedevo. Scrivevo sempre in italiano, la lingua della mia formazione. In Italia l’esperienza della guerra civile in Somalia e anche quella della mia maternità, arrivata presto, erano difficili da raccontare a voce. Poi però ho sentito storie che somigliavano alle mie e ho cominciato a percepire la scrittura come responsabilità civile, responsabilità di raccontare storie non conosciute”.


– Al Maxxi, con la casa editrice 66th and 2nd, ci si è interrogati su “come raccontare l’Africa”. Gli scrittori afroitaliani possono aiutare a far capire complessità e ricchezze?

“Negli anni ’90 con ‘Io, venditore di elefanti’ di Pap Khouma l’Italia si rendeva conto che era ormai una terra di immigrazione e non più di emigrazione. Uscivano opere scritte da autori che non avevano un legame con l’italiano simile al mio e che anche per questo potevano avere una visione più distaccata. Per Khouma il francese era legato alla colonizzazione, mentre l’italiano era una lingua di libertà. Oggi queste voci devono aiutarci a uscire dalla generalizzazione e a capire cos’è l’individualità. E’ importante come viene raccontata una storia. Ognuna affonda nelle nostre radici culturali, che diventano universali quando sono comunicabili. La letteratura è un ponte verso la convivenza civile, perché solo con il racconto delle storie ci conosciamo. Nel mio primo romanzo, sulla diaspora, immaginavo ciascun personaggio a colloquio con un interlocutore. Noi ci definiamo attraverso l’interlocutore: la comprensione tra le persone nasce da qui”.

– Il suo romanzo d’esordio, ‘Madre piccola’ si è aggiudicato il premio Elio Vittorini nel 2008. E il suo ultimo lavoro? Ci racconta qualcosa?

“E’ la riscrittura di ‘Antigone’, per uno spettacolo con la regia di Giuseppe Massa. Attorno a noi scrittori afroitaliani c’è stata una polemica sul fatto se potevamo scrivere solo di migrazioni o meno. Con ‘Antigone’ ho lavorato su un testo classico, interpretato da ragazzi di origine africana appena arrivati a Palermo, per sottolineare il tema della disobbedienza civile. Nella tragedia di Sofocle, Antigone contravviene a una legge dello zio dittatore perché la sua etica le impone di seppellire il fratello. Volevo utilizzare le parole della retorica di politici come Salvini o Trump, inserendole nel testo per far capire quanto possano essere distruttive. Le parole sono molto importanti”.

– Ha citato Salvini e Trump. Oggi c’è bisogno di una contronarrazione?

“Sì, credo che le parole possano uccidere e che allora i giornalisti abbiano una grande responsabilità. E’ pericoloso sdoganare discorsi fatti con leggerezza. Il linguaggio aggressivo produce aggressività. Bisogna prestare attenzione a ciò che si dice. Penso a questa ossessione dell’invasione. E’ assurdo. Il mondo è sempre più interconnesso e globale. Si dovrebbe lavorare sulle relazioni, favorirle. Siamo tutti così legati che è impensabile ignorare quello che succede in altre parti del mondo. Dall’Italia mi sono spostata in Belgio, dove vivo da cinque anni. Vedo ogni giorno che l’arrivo di migranti non sempre toglie lavoro. A volte invece lo dà. Se arrivano nuovi bambini bisogna assumere nuovi insegnanti”

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