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“Cagnoni torni in cella alla Dozza”, associazioni antiviolenza lanciano sit-in

Cagnoni uccise a bastonate la moglie che aveva deciso di lasciarlo: condannato all’ergastolo in primo grado nel 2018, la pena è stata confermata in appello

Pubblicato:14-02-2020 12:36
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 17:00

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BOLOGNA – Si sono mobilitate e hanno raccolto in poco tempo 62.000 firme per chiedere che Matteo Cagnoni torni in carcere alla Dozza di Bologna. Il trasferimento in quello di Ravenna, avvenuto il 25 novembre 2018, dicono, è un’ingiustizia, perché si tratta di un carcere troppo ‘leggero’ per un uomo che ha massacrato la moglie a bastonate dopo che lei aveva deciso di lasciarlo. Dopo aver raccolto le firme, il centro antiviolenza Linea Rosa, l’Udi (Unione delle donne in Italia), la Casa delle donne di Ravenna e l’associazione ‘Dalla parte dei minori’, hanno deciso di mobilitarsi organizzando un presidio che si terrà lunedì mattina alle 11 a Bologna, davanti al Dap, dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

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Il caso di Cagnoni è molto noto: dermatologo, invitato spesso in tv come esperto, l’uomo nel 2016 ha ucciso a bastonate la moglie, Giulia Ballestri, che aveva chiesto la separazione. La coppia viveva a Ravenna con i tre figli. Cagnoni è stato condannato all’ergastolo in primo grado nel 2018 e la pena è stata confermata in appello. Linea Rosa, Udi e ‘Dalla parte dei minori’ sono stati parte civile nei diversi processi. Dopo aver trascorso alla Dozza appena 112 giorni, a fine novembre 2018 è stato trasferito nel carcere di Ravenna, “struttura abitualmente riservata solo a chi ha condanne per reati di più lieve entità”, scrivono in una nota.


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La protesta contro il trasferimento era partita subito: il 29 novembre 2018 le avvocate delle associazioni avevano inviato “un interpello al Dap” in cui segnalavano come illegittimo lo spostamento e chiedevano “giustizia contro ogni privilegio e disparità di trattamento”, anche per “rispetto delle vittime di femminicidio, di Giulia e dei suoi figli“.

La richiesta, poi, si è trasformata in un appello pubblico sottoscritto in pochissimo tempo da oltre 62.000 persone e promosso con una fiaccolata silenziosa molto partecipata per le vie della città conclusasi davanti alla Casa Circondariale di Ravenna.

Dopo aver sollecitato nuovamente il Dap quest’estate, da novembre scorso le associazioni sono passate all’azione, organizzando ogni venerdì un presidio davanti al carcere di Ravenna. Di risposte, però, non ne sono arrivate. E così hanno raccolto le firme e organizzato il presidio. “Se quanto abbiamo fatto finora non è bastato, faremo di più”, affermano le associazioni.

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“Lunedì 17 febbraio saremo a Bologna davanti al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Chiediamo di essere ricevute per poter esporre le nostre motivate ragioni e conoscere quelle che hanno permesso l’adozione di una misura che riteniamo ingiustificata”. La richiesta coinvolge anche il parlamento: “Chiediamo a deputate e senatrici di fare proprie le nostre ragioni attraverso interrogazioni parlamentari o altre azioni politiche ritenessero opportune”.

“La trasversalità della violenza non distingue in base al censo e alla cultura, all’etnia e al colore della pelle”, sottolinea Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, la rete nazionale dei centri antiviolenza, di cui il centro antiviolenza di Ravenna fa parte. “Nel rispetto di Giulia e dei suoi figli siamo a contestare la legittimità del trasferimento, e affermiamo che la giustizia non prevede privilegio e disparità di trattamento”.

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