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Lewis Hamilton, il campione che aveva bisogno di perdere per vincere davvero

Verstappen lo ha privato dell'ottavo titolo mondiale dopo una stagione incredibile. Ma l'inglese ha dato l'ennesima lezione da fuoriclasse, completando la crescita verticale di persona e personaggio

Pubblicato:13-12-2021 09:09
Ultimo aggiornamento:13-12-2021 09:09

hamilton mercedes formula 1
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ROMA – Se Lewis Hamilton avesse potuto costruirsi un trampolino ideale verso l’immortalità sportiva se lo sarebbe fatto a immagine e somiglianza di questo Mondiale. Ma col finale al contrario: vinto in chiusura di una stagione, all’ultimo Gp, all’ultimo Giro. A spallate, per manifesta superiorità. A chiudere nel nome suo un’era politica e tecnologica della Formula 1. Battendo un avversario giovane e “cattivo” in volata, mentre la stampa incorniciava l’impresa a lento rilascio, Gp dopo Gp, rimonta epocale dopo l’altra.

Avrebbe piazzato lì, nel mezzo del copione, le penalità di cui aveva bisogno per autorappresentarsi in svantaggio, proprio lui che dopo sette Mondiali in bacheca era ormai la definizione ambulante di superiorità. Persino la decisione di riesumare un ultimo ferale giro dopo la safety car. Un match point a tavolino. E si sarebbe goduto poi lo strappo da narrare ai posteri con l’appeal emozionale che separa i miti dai campioni. Verstappen lo ha invece privato dell’ottavo titolo mondiale, lasciandogli l’autocelebrazione senza il riconoscimento statistico: il migliore-e-basta resta un’etichetta utopica. Per ora.



Ma se non nei numeri, nei modi Hamilton ha graffiato il destino manifestando la propria enormità: è rimasto fermo, statuario, nel suo abitacolo, mentre il mondo attorno esplodeva. Toto Wolff sacramentava alla radio contro l’ingiustizia e preparava ricorsi su ricorsi, Verstappen abbracciava tutti, e lui lì, ermetico, nel suo casco. Zen. Poi ne è uscito, e senza dare evidenza di stress, ha reso gli onori delle armi, fino ad un attimo prima affilatissime. Una lezione da fuoriclasse che disinnesca il complesso di sottostima mediatica che lui stesso aveva malgovernato in tutti questi anni.


Ha completato – perdendo! – una crescita verticale di persona e personaggio, sportivo e uomo che s’espone nelle battaglie civili. S’è imposto come unico pilota nero di successo, caso bellico di riscatto sociale in un mondo – i motori – non inclusivo. Non solo per questioni razziali, ma ancor di più per chi non se lo può permettere. Farcela e basta, non bastava più. Ha perso un duello incredibile, uscendone paradossalmente fortissimo.

Per troppo tempo ha indossato i panni caldi e scomodissimi dell’uomo che sapeva scegliersi le battaglie, l’atleta dal raffinato fiuto politico che ha saputo lasciare la McLaren al momento giusto per poi andare a dominare in Mercedes, con una vettura che gli si è ritorta quasi contro in termini di immagine personale. In Formula 1 i campioni corrono sempre a rischio tormentone: “Eh, con quella macchina vincevo pure io”, tipo.


Per cui Hamilton ha preso a divorare il circo della Formula 1 nella sua trasversalità, lavorando sulle vittorie e sull’icona Lewis, il brand. Il velocissimo e multiforme pilota quasi a tratti imbattibile e il simbolo del riscatto economico e razziale. In combinata. Con quell’ombra – quella sì imbattibile – in scia: Michael Schumacher. In attesa di definire la sua casella statistica nella storia ha agganciato il contesto, imponendosi come leader della transizione verso un mondo con gerarchie sociali più rarefatte e barriere culturali più friabili. E regolamenti nuovi, che chissà a quale rivoluzione condurranno. È rimasto campione, perdendo, Hamilton. In parallelo a Verstappen. Per contrasto, la Red Bull ha messo le ali anche a lui.

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