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L’amico di Zaki: “In Egitto lo Stato sequestra e uccide, non abituiamoci”

Parla Amr Abdelwahab, attivista egiziano residente all'estero

Pubblicato:13-12-2020 13:29
Ultimo aggiornamento:13-12-2020 13:29

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ROMA – “Patrick Zaki per me non è solo un attivista ma un amico vero. In questo momento Patrick sta trascorrendo il suo 309esimo giorno in custodia cautelare e insieme ad altre 60.000 persone e’ lasciato a marcire in uno dei luoghi piu’ sudici del mondo: il sistema carcerario egiziano. Ma i detenuti di coscienza non sono numeri, bensi’ volti, nomi, esseri umani la cui unica colpa e’ aver osato sognare il cambiamento”. Amr Abdelwahab e’ un attivista egiziano residente all’estero. In un appello video per l’agenzia Dire realizzato in occasione del webinar ‘La tutela dei diritti umani in Egitto – Da Patrick Zaki agli arresti dell’Egyptian Initiative for Personal Rights’ organizzata dalla sezione di Pisa della European Law Students’ Association (Elsa Pisa). Abdelwahab racconta che “spesso la gente mi chiede come siamo arrivati a questo, dopo la rivoluzione del 2011, con milioni di persone. Semplice: l’apparato statale sta usando ogni strumento – senza alcuna considerazione per norme costituzionali e convenzioni internazionali – per punire chiunque abbia preso parte alla rivoluzione in passato, ma soprattutto si sta assicurando che il popolo egiziano non voglia riprovarci in futuro. Il primo esempio di queste pratiche e’ la cosiddetta ‘accusa copia e incolla’”.

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 Secondo Abdelwahab, in quasi ogni caso di detenzione in Egitto “si ricorre alla stessa lista di capi d’imputazione: promozione di idee che minacciano l’ordine pubblico, ricorso a profili social per rovesciare il regime, incitamento alla sovversione, adesione al terrorismo, diffusione di notizie false”. La seconda pratica “e’ la detenzione preventiva utilizzata come pena, e che puo’ durare fino a un massimo di due anni, ma questi termini spesso vengono violati”. Terzo, la “bolla” o sparizione forzata: “lo Stato rapisce una persona e nega di averla in custodia. Durante questo periodo di tempo, la persona rapita viene di solito privata dei propri diritti fondamentali di difesa, viene torturata e sottoposta ad ogni tipo di pratica che potete immaginare. In molti casi la persona rapita viene uccisa e buttata sul bordo di una strada”. Una pratica che, osserva Amr Abdelwahab, “ricorda il caso di Giulio Regeni, in cui probabilmente e’ successo questo”. In altri casi, dice l’attivista, “lo Stato mostra il corpo senza vita della vittima affermando che ‘il terrorista’ è rimasto ucciso in uno scontro con le forze di sicurezza“. Il rischio, conclude, “e’ abituarsi alla normalita’ di questa situazione”.


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