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Scappa dal Mali perché gay, in due anni arriva a piedi in Italia

La storia è affidata all'agenzia DIRE da Mauro Romualdo, medico napoletano che fa volontariato allo sportello di assistenza per i migranti dell'ex Opg "Je so’ pazzo"

Pubblicato:13-12-2017 12:25
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:59

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mauro romualdo

M. Romualdo

NAPOLI – E’ scappato a piedi, dal Mali verso l’Italia. Un viaggio di 10mila chilometri durato oltre un anno e mezzo tra la Tunisia e i Balcani, passando per la Slovenia sino a Napoli, dove ha trovato accoglienza.

Diara, il nome è di fantasia, aveva poco più di 18 anni quando ha rivelato alla sua famiglia, tradizionale e conservatrice, di essere omosessuale. È la storia che affida all’agenzia DIRE Mauro Romualdo, medico napoletano che fa volontariato allo sportello di assistenza per i migranti dell’ex Opg “Je so’ pazzo”.

Romualdo ha visitato più volte Diara. Non tanto per i suoi traumi fisici quanto per quelli psicologici, più difficili da certificare ma non per questo meno gravi.


“Di recente Diara – spiega il medico – mi ha raccontato che aveva un compagno, lo amava molto. Suo padre e suo fratello, scoperta la sua omosessualità, l’hanno picchiato a sangue con un bastone di ferro. Sul corpo aveva ancora i segni di quella violenza, tante cicatrici che io ho certificato. L’hanno quasi ammazzato”. Allora lui è scappato, non poteva più mettere piede in casa. E neanche fuori, perché nella sua regione, il Mali Settentrionale, a causa di un conflitto armato interno, oltre 33mila maliani sono rimasti sfollati e circa tre milioni di persone “vivono in condizioni d’insicurezza alimentare”, comprese almeno 423mila “in situazioni di estrema gravità” (dati di Amnesty International).

Il suo viaggio, a piedi dal Mali fino alla Campania, è durato più di un anno e mezzo. “E quando è arrivato in Italia non sapeva neppure in quale Stato si trovasse”. Ricordi, questi, che Diara ha affidato al medico qualche anno dopo l’inizio della sua fuga. “Visito ragazzi che solitamente hanno tra i 16 e i 24 anni. Spesso vengono accolti in grossi CAS (Centri d’Accoglienza Straordinaria, ndr) e in quel caso difficilmente riceveranno l’assistenza sanitaria adeguata. Un primo trauma – dice il volontario – gli viene causato anche soltanto dal distacco dalla loro realtà. Parliamo di condizioni di vita disperate che vivono nei loro Paesi, parliamo di ragazze e ragazzi che spesso sono obbligati a scappare per motivi diversi, dalle guerre alla faide tra clan, a problemi familiari o anche alla non accettazione dell’omosessualità da parte dei parenti e della comunità. Il ricordo che ho più nitido del racconto di Diara è il suo immenso dispiacere nel vedere che suo padre, sempre amorevole nei suoi confronti, fosse diventato d’improvviso così violento”. Casi come quello di Diara vengono spesso all’attenzione del medico. Romualdo ha visitato molti dei ragazzi sbarcati sul molo di Salerno lo scorso 5 novembre. A bordo del barcone c’erano i cadaveri di 26 donne e, a piangerli, centinaia di migranti africani. “E’ stato difficile riuscire ad entrare in contatto con quei ragazzi – racconta il medico -. La maggior parte di loro non riusciva neppure a parlare”.

di Nadia Cozzolino, giornalista

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