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Covid, al Ceinge di Napoli individuati i geni che determinano il decorso severo della malattia

Zollo: "Il ritardo sul deposito dei dati crea una sottostima sulla prevalenza delle varianti"

Pubblicato:13-07-2021 10:35
Ultimo aggiornamento:13-07-2021 10:45

terapia intensiva ospedale coronavirus
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ROMA – “Con uno studio coordinato dal professore Mario Capasso e finanziato nel progetto ‘Task Force Covid-19 Ceinge Regione Campania’, abbiamo condotto un’analisi con l’ausilio di tecnologie avanzate sul DNA, dette ‘Next generation sequencing’, Whole Genome Exome sequencing (WES) e Genome Wide Association Studies (GWAS) per individuare quelle caratteristiche genetiche, di geni o di elementi regolatori sul DNA di pazienti o individui sani e non affetti che posseggono varianti predette patogeniche e che predispongono o aumentano il rischio di avere una malattia severa una volta infettati da Sars-Cov-2“, spiega Massimo Zollo, ordinario di genetica dell’università di Napoli Federico II, responsabile di unità di ricerca (PI) Ceinge, del laboratorio diagnostico CNS-lab, della piattaforma di patologia clinica e citogenetica oncologica ed ematologica presso il Ceinge-Biotecnologie avanzate.

Il genetista Zollo, interpellato dalla Dire, spiega come l’individuazione di alcuni geni, attraverso tecniche altamente sofisticate, consenta di capire come può evolvere la malattia da Covid.

“Capasso con il suo team ha utilizzato set di dati provenienti dalla letteratura e altri data set provenienti dall’ambiente clinico, ovvero da pazienti Sars-Cov-2 ospedalizzati, comparandoli attraverso studi GWAS e cercando quali geni possano essere condizionanti per l’ingresso del virus, nonché determinare se l’infezione sarà sintomatica e/o con malattia ‘severa’, oppure asintomatica”, spiega il professore. Due studi hanno identificato la variante del gene CCR5 e la variante del gene TNFRF13C. “Il primo gene codifica per una proteina recettore a cui si legano diverse citochine e parte della tempesta citochimica che si attiva nei pazienti affetti. L’altra variante risiede nel gene individuato TNFRF13C, la cui proteina è un recettore del fattore che attiva le cellule B anche detta BAFFR. La variante identificata aumenta l’attivazione dei segnali pro-infiammatori mediati anche da attivazione alla produzione di cellule B attive. Questa variante genetica si è trovata presente maggiormente nei casi severi, se paragonata a casi asintomatici o non severi”.


La presenza della variante nel gene “si associa quindi ad una predisposizione nei malati da Sars-Cov-2 ad una malattia severa”, spiega Zollo. “Nel nostro genoma ci sono oltre 23mila geni- aggiunge- guardare in questo genoma quali sono le varianti di espressione dei nostri geni è molto utile perché ci permette di capire come mai l’infezione si attiva in modo impetuoso o silente o è del tutto ridotta, generando pazienti con tipologia di malattia asintomatica o pauci-sintomatica. Abbiamo inoltre un altro studio genomico e bioinformatico, che sta per essere completato, un’analisi su una particolare zona della Campania, dove sono stati registrati tanti casi ma tutti asintomatici. Individuate alcune tipologie specifiche di geni, possiamo bloccare lo sviluppo della malattia e quindi contenere il suo decorso in modo meno impattante”, annuncia Zollo.

Ciò che emerge, non solo dagli studi del Ceinge che coordina Zollo, è che la genetica è l’aspetto più importante per fare diagnostica, terapia e prevenzione nei confronti di altri e nuovi coronavirus. “Quello che abbiamo prodotto in termini di ricerca nel mondo in questi 18 mesi è paragonabile a dieci anni di attività– ammette Zollo- è incredibile quanto siamo riusciti a spingerci oltre sul Sars-CoV-2. Quello che stanno evidenziando alcune ricerche, in queste ultime settimane, è che il virus muta non solo per interagire con il recettore di ingresso Angiotensina 2 (ACE2), ovvero sulla proteina Spike, ma anche su altri geni del suo genoma. Solo che le mutazioni in Spike sembrano dare un vantaggio ad agganciarsi meglio al recettore ed entrare nella cellula ospite“, precisa il coordinatore del progetto di ricerca task force Covid-19.

“Guardare solo il virus, però, non è sufficiente- mette in guardia- serve guardare anche la cellula ospite: il genoma della cellula ricevente. Ognuno di noi, infatti, fornisce una risposta diversa al virus. In un’ottica di medicina personalizzata, potremo identificare i pazienti ad alto rischio e quelli a più basso rischio. Il Sars-CoV-2 ci ha dato quindi una lezione molto importante- conclude Zollo- rendere più rapide diagnostica e studi genomici per far fronte ai nuovi virus e alle nuove varianti”.

ZOLLO: “RITARDO SU DEPOSITO DATI CREA SOTTOSTIMA PREVALENZA VARIANTI

“Il ritardo del deposito dei dati è un problema a cui prestare attenzione: c’è in effetti bisogno del tempo per analizzare questi dati, ma è anche vero che i team al lavoro su questo dovrebbero essere in maggiore connessione. Dai dati in mio possesso, con la variante delta siamo già oltre il 30%, anche perché da quando analizziamo i campioni a quando depositiamo i genomi passano dieci giorni. Il tracciamento di queste varianti va fatto, quindi, nel modo più rapido possibile, con un sistema centralizzato. Dobbiamo fare in modo di depositare subito sulla banca dati centrale le informazioni”, spiega Zollo.


Interpellato dalla Dire, il professore spiega su cosa sta lavorando il Ceinge, il centro di alta formazione sulle biotecnologie avanzate, situato nel territorio campano e in cui lavorano molti giovani ricercatori. Il Ceinge sta lavorando sia sui dati Gisaid, la banca dati internazionale su cui vengono depositate le informazioni genetiche sulle nuove varianti del virus, che sul fronte diagnostica e terapia: con la scoperta di alcuni anticorpi umani anti-spike per inibire l’infezione da SarS-CoV-2 e con uno studio sulle cause genetiche che concorrono ad un decorso particolare grave della malattia. “Il nostro istituto ha un team di bioinformatica coordinato dal professor Paolella e due unità di personale, con il dottor Angelo Boccia e la dottoressa Rossella Tufano, che tracciano i dati sulle banche dati mondali. Il tracciamento è fondamentale ma, soprattutto sul fronte dei laboratori italiani, c’è un certo ritardo sul deposito dei dati che può portarci a sottostimare la prevalenza di una determinata variante sul territorio”, spiega Zollo.

Il punto chiave per far fronte alla diffusione delle varianti, anche per via del ritardo con cui le registriamo, è circoscrivere, meglio ancora evitare quanto più possibile, i nuovi contagi e procedere alla vaccinazione– aggiunge il professore- come da più parti la comunità scientifica sta invitando a fare e come abbiamo spiegato in uno studio appena pubblicato su Scientific Reports – del gruppo editoriale di Nature – con il team del Ceinge coordinato dalla Professoressa Claudia Di Lorenzo, in cui il mio gruppo e il gruppo di ricerca del Professore Nicola Zambrano hanno collaborato insieme ad identificare attraverso una tecnologia di ‘phage display’ nuovi anticorpi monoclonali umani anti-SPIKE-RBD. Questa tecnica prevede di identificare, usando batteri ricombinanti, quelli che producono gli antigeni che riconoscono la parte della proteina Spike chiamata RBD e usata come esca. Inoltre, questi anticorpi isolati sono in grado di interagire con la proteina ACE2 ricombinante, mimando l’interazione Spike-ACE2 e quindi inibendo l’ingresso nella cellula del virus”.

Una spiegazione molto tecnica quella del genetista, ma indispensabile a capire perché questa potrebbe essere una nuova cura contro la malattia, combinata ad altri trattamenti. “Utilizzando l’ingegneria genetica- prosegue Zollo- abbiamo prodotto degli anticorpi in grado di neutralizzare sia la versione del virus di 20A che quello alfa (variante UK). Questi anticorpi possono quindi essere utilizzati insieme ad altri, magari i monoclonali, e crediamo siano validi anche contro la variante delta, come abbiamo potuto vedere dalla sperimentazione in laboratorio”, conclude il coordinatore del laboratorio Ceinge.

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