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Mariam, l’ex ostaggio di Shabaab: “Lasciate in pace Silvia Romano”

"Quelle tre ore mi sembrarono una vita; non so immaginare cosa possa essere stata per lei una prigionia di 18 mesi"

Pubblicato:13-05-2020 10:59
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:18
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ROMA – “Vi dico: lasciatela in pace. Sono stata tre ore ostaggio di Al Shabaab, con addosso il sangue di mio marito e una nuova vita in grembo. Mi chiamavano i giornalisti e io volevo stare in pace. Lei e’ stata prigioniera 18 mesi: non potete nemmeno immaginare cosa abbia sofferto”. A parlare con l’agenzia Dire, da Mogadiscio, e’ Mariam Yassin Hagi Yussuf.

Partita dalla sua Somalia nel 1991, dopo l’inizio della guerra civile, e’ da tempo cittadina italiana. Alcuni anni fa pero’ e’ tornata a vivere e a lavorare a Mogadiscio, dove lavora per il governo e cura questioni legate ai bambini e ai migranti.
Oggi non parla di politica, ma di una ragazza italiana, una vittima di Al Shabaab proprio come lei.

“L’ultima volta che guardai l’orologio era mezzogiorno meno dieci” scandisce al telefono, ricordando quella mattina di sabato. Era il 21 settembre 2013, a Nairobi, in Kenya. Mariam aspettava una seconda bimba e con il marito era andata al centro commerciale di Westgate. Per via di una gravidanza complicata, era la prima volta che usciva da settimane. Pochi minuti e comincia l’assalto del commando di Al Shabaab. Raffiche di kalashnikov, nascondigli sotto le scale e nei magazzini, la ricerca di una via di fuga prima dell’intervento delle unita’ anti-terrorismo.


Tra gli almeno 63 morti di quel giorno anche il marito di Mariam, il padre di una bambina che oggi ha sei anni: “A un certo punto un uomo senza uniforme, delle forze speciali, al quale saro’ sempre grata, si avvicino’ e mi disse: ‘Vieni via, ‘I am a good guy’: mi mostro’ che non aveva armi con se’, io non volevo crederci”.

Quella di Silvia Romano e’ un’altra storia, ma c’e’ una violenza che ritorna. “Mi sento vicina a lei” dice Mariam. “Quelle tre ore mi sembrarono una vita; non so immaginare cosa possa essere stata per lei una prigionia di 18 mesi, trasportata da un Paese all’altro in condizioni drammatiche; ora ha bisogno di riposarsi, di riprendersi dal trauma”.

Soprattutto, non avrebbe bisogno di sentirsi giudicata. “Ricordo ancora – dice Mariam – il dolore provato a causa di chi, due o tre giorni dopo quello che avevo vissuto, mi venne a dire: ‘Se aveste detto che eravate somali forse non avrebbero aperto il fuoco’”.

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