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Taglio dei parlamentari, i costituzionalisti: “Si rischia un salto nel buio, la democrazia non funziona così”

I costituzionalisti critici sulle riforme: "Si rischia il disastro"

Pubblicato:12-12-2019 18:55
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 16:45

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ROMA – “Non vorrei essere nei suoi panni…”. A gennaio, quando tutti o quasi i nodi della politica italiana verranno al pettine, il costituzionalista Massimo Luciani non vorrebbe essere al posto di Sergio Mattarella.

Il 12 gennaio si sapra’ se il taglio dei parlamentari verra’ sottoposto a referendum confermativo o meno. Nel secondo caso diventera’ legge. Il 15 gennaio si riunira’ la Camera di consiglio della Corte Costituzionale, per esaminare la richiesta della Lega di referendum abrogativo sulla parte proporzionale del Rosatellum.

Sul piano piu’ strettamente politico, poi: a gennaio ci sara’ l’approdo in aula del ddl sulla legge elettorale. E ancora: a gennaio il premier Giuseppe Conte intende portare a termine la verifica di governo. Un intreccio di nodi che le forze politiche avrebbero dovuto evitare, spiega Massimo Luciani nel corso di una lectio con Salvatore Curreri alla Stampa Parlamentare.


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“La revisione costituzionale richiede compattezza parlamentare. Il titolo V, ad esempio, ha combinato dei disastri in parte rimediati poi dalla Consulta, che si e’ sostanzialmente sostituita a un legislatore improvvido”. Lo stesso vale per il taglio dei parlamentari. “Non si cambia la costituzione per uno scopo elettorale”.

Luciani ricorda che il presidente della Repubblica ha sempre “davanti a se’ un faro: scioglie le Camere se non riescono a formare un nuovo governo. Ma fara’ tutti gli sforzi possibili per vedere se e’ possibile un nuovo governo. Altrimenti si deve andare allo scioglimento. Ma in queste condizioni sarebbe un salto nel buio, perche’ non sappiamo se la legge costituzionale sara’ approvata, se saranno approvati i nuovi regolamenti, se avremo una legge elettorale o no, se andremo a referendum con la vecchia legge e a costituzione cambiata. Sarebbe un disastro”.

Luciani sintetizza: “Al 13 gennaio delle tre l’una: o non e’ stata depositata nei termini la richiesta di referendum costituzionale e allora si apre una forchetta e il capo dello stato promulga la legge costituzionale essendo scaduto il termine. Oppure il Capo dello stato non la promulga e in astratto puo’ farlo perche’, ad esempio, ne va della sua responsabilita’ penale. Oppure, nel terzo caso, e’ stata depositata richiesta di referendum costituzionale, la legge costituzionale non e’ ancora legge. E non lo sara’ finche’ il capo dello stato non la promulghera’”.

Nel caso in cui fossero depositate le firme e venisse indetto il referendum “il presidente della Repubblica puo’ ritardare fino a sei mesi l’indizione e puo’ anche determinare un referendum day” nel caso in cui il 15 gennaio venisse ammesso il referendum abrogativo della legge elettorale richiesto dalla Lega.

Su quest’ultimo punto Luciani chiede la facolta’ di non rispondere. “Voglio studiare meglio il quesito e la norma”, dice ma ricorda “che la giurisprudenza costituzionale ha piuttosto largheggiato nel concedere il referendum abrogativo sulle leggi elettorali”. Curreri osserva invece che nel caso di specie a suo dire la Consulta boccera’ la richiesta della Lega per mancanza del requisito dell’autoapplicativita’: “La necessaria operativita’ della normativa di risulta. Quando procedo al ritaglio” della legge elettorale “deve uscire una cosa che funziona”.

Ma se venissero raccolte le firme per il referendum confermativo del taglio dei parlamentari, che non sarebbe ancora legge, e la Consulta concedesse il referendum abrogativo di una parte del Rosatellum? “Sarebbe uno scenario ignoto”, ammette Luciani.

Torniamo a gennaio. Consideriamo che non passi il referendum abrogativo della Lega. Se vengono raccolte le firme per indire il referendum sul taglio dei parlamentari (ad oggi a quota 54, ne servono 65) che scenari si aprono? La riforma non e’ ancora promulgata, si aprirebbe una parentesi di almeno sei mesi nel corso dei quali al presidente della Repubblica, e ai partiti, spetta decidere se proseguire la legislatura con l’attuale governo e fare le riforme richiamate dal taglio dei parlamentari. Oppure, in caso di crisi, se favorire la formazione di un governo che dovra’ attendere a quelle riforme. Ma anche se tornare alle urne: col vecchio sistema e la vecchia legge elettorale, con 945 parlamentari da eleggere e procastinare il referendum a dopo il voto. “Il presidente della Repubblica lo puo’ fare”, spiega Massimo Luciani. In quest’ultimo caso sarebbe il nuovo Parlamento ad occuparsene.

Non a caso al Senato in molti pensano a questo: far partire il referendum confermativo e nelle more che si tenga andare al voto, magari col turno delle regionali di maggio. “So che c’e’ questo disegno, ma si fa senza dirlo. E’ l’uso tattico della legge costituzionale. Non e’ una bella cosa, ma puo’ funzionare perche’ determinerebbe quei risultati. Ma non sarebbe una bella cosa”, dice con un filo di ironia Luciani.

Piu’ difficile invece l’ipotesi di un “governo tecnico di transizione per sciogliere i nodi in campo prima di uno scioglimento delle Camera. E’ senz’altro possibile, ma passa per un nuovo governo. Bisogna tenere conto della difficolta’ di fare le riforme. E’ pensabile che in quella finestra si sciolgano tutto nodi? E’ una strada in astratto convincente, ma in concreto no. Tenuto conto che lo scontro, una volta aperta la crisi, sarebbe furibondo”.

Una cosa e’ certa: l’entrata in vigore del taglio dei parlamentari comporterebbe effetti “significativamente negativi” sull’organizzazione del Parlamento e sulla dinamica dei gruppi, cioe’ sul piano politico, spiega Salvatore Curreri. La riduzione del 36 per cento dei parlamentari ha effetti in primo luogo sulla legge elettorale.

Vanno ridefinite le circoscrizioni regionali e valutati gli effetti sulla base regionale. Sul piano del funzionamento di ciascuna Camera “il numero dei parlamentari non e’ una variabile indipendente anche e soprattutto sull’organizzazione del lavoro”.

Questo vale soprattutto per il Senato. Farlo funzionare con 200 senatori anziche’ 320 comporta uno stravolgimento. “Con questi numeri il Senato non puo’ funzionare”, dice Curreri.

E passa a una serie di esempi operativi: “Consideriamo gli effetti sugli organi a composizione fissa come l’ufficio di presidenza e le giunte. Si potrebbe ipotizzare una riduzione proporzionale a tutti i gruppi, ma se lo fai devi anche riequilibrare le cariche interne. Ad esempio i questori, sono cariche non riducibili, perche’ hanno un ruolo molto particolare e la loro presenza e’ incomprimibile”.

Ma al di la’ di questo aspetto la riduzione pone problemi di “rappresentativita’ delle forze politiche nell’ufficio di presidenza, visto che devono essere rappresentati tutti i gruppi. Se riduco i componenti, rischio di lasciare fuori qualche gruppo”. Lo stesso vale per le giunte. Senza contare che i “parlamentari non hanno il dono delle bilocazione. Ci sara’ un problema per i senatori che sono membri di piu’ organi. Nelle commissioni si fa il lavoro principale. La costituzione introduce il criterio degli stessi equilibri politici della commissione rispetto all’aula”.

Al momento esiste una norma regolamentare che consente ai gruppi piu’ piccoli di essere presenti in piu’ commissioni anche con uno stesso senatore. Per questo i senatori presenti in commissione sono 326 mentre i senatori sono in totale 319. “Ma se si applica la riduzione del 36 per cento ai numeri attuali – spiega Curreri – al Senato avremmo commissioni composte con un range da 13 a 16 senatori. Gia’ il fatto stesso che il carico di lavoro di una commissione come la affari costituzionali e la bilancio gravi sul peso di 14-15 senatori pone delle perplessita’. Ma proprio questa riduzione potrebbe portare seri problemi al funzionamento stesso della commissione, potremo avere gruppi che non avrebbero i numeri per essere presenti in commissione, gruppi minoritari che sono quasi sempre gruppi di opposizione. Questo e’ molto preoccupante e non solo in riferimento alla composizione ma in riferimento all’attivita’ legislativa. Si potrebbe realizzare questa fattispecie: la commissione con un numero legale a 7 senatori potrebbe licenziare una norma con una maggioranza di 4 in sede legislativa. La democrazia non funziona cosi”.

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