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Al centro antiviolenza di Lecce 171 richieste di aiuto in sei mesi

Al centro antiviolenza 'Renata Fonte' di Lecce presentato il rapporto sulle attività nei primi sei mesi del 2019

Pubblicato:12-07-2019 16:28
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:31

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ROMA – Ben 171 richieste di aiuto per maltrattamenti in famiglia, stalking e violenza sessuale da parte di donne tra i 18 e i 70 anni nei soli primi sei mesi del 2019. È il dato che emerge dal rapporto semestrale (gennaio-giugno 2019) del centro antiviolenza ‘Renata Fonte’ di Lecce, presentato stamattina nella città pugliese nel corso di una conferenza stampa alla presenza, tra gli altri, di Silvia Miglietta, assessora a Welfare e Pari Opportunità del Comune di Lecce, e Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea e coordinatrice nazionale di Reama-Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto, di cui il centro fa parte.

Un numero importante, che fa il paio con le 6.312 donne che si sono rivolte al centro ‘Renata Fonte’ nei suoi vent’anni di attività (1998-2018), particolarmente interessante se letto nella cornice dell’indagine su centri e servizi antiviolenza italiani realizzata da Istat e Irpps (Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali) del Cnr elaborata su richiesta del Dipartimento per le Pari Opportunità.

In base ai dati diffusi lo scorso 10 luglio, ancora non completamente pubblicati, nel corso del 2017 sono state 54.706 le donne che hanno contattato almeno una volta uno dei 338 centri e servizi antiviolenza censiti, 32.632 (59,6%) quelle che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. Le strutture del Nord hanno accolto, in media, 143 donne, contro le 58 del Sud. Sempre nel 2017, le donne che hanno iniziato per la prima volta un percorso di uscita dalla violenza sono state 23.999, con un’affluenza più elevata al Nord, per un numero medio di 107 donne, contro le 42 del Sud, dove però i centri risultano essere 1,5 ogni 100mila donne con 14 anni e più, mentre al Nord la media è di 1,1.


“Avere un centro che nell’arco di sei mesi prende in carico 171 persone non è cosa di poco conto- commenta alla Dire Lanzoni- Il dato si spiega perché ci sono molti anni di lavoro sul territorio in rete”.

Se infatti il 30% dei casi è arrivato al ‘Renata Fonte’, gestito dall’associazione ‘Donne Insieme’, attraverso il numero nazionale antiviolenza 1522 e il 20% su invio dei servizi (forze dell’ordine e servizi sociali territoriali), “il 50% è tutto lavoro di rete, passaparola, sensibilizzazione nelle scuole e ad eventi pubblici- continua Lanzoni- Vuol dire che le donne sanno che esiste un centro da vent’anni, che è elemento portante di un territorio”.

Un’eccellenza che sembra in contrasto con il dato statistico. “Aspettiamo il documento completo dell’Istat-Cnr in cui potremo avere anche i numeri a livello regionale- dice Lanzoni- Ma la media dell’affluenza di 42 donne al Sud ci può far pensare che forse c’è un problema di risorse di tutta la rete dei servizi o forse un problema di formazione in servizi sociali e forze dell’ordine”. Sicuramente, però, per la vicepresidente di Pangea “c’è un problema di cittadinanza, perchè una donna del Nord riesce ad accedere a più servizi rispetto a una del Sud”.

A sostenere che il problema vada inquadrato dal punto di vista qualitativo più che quantitativo è Maura Misiti, dell’Irpps-Cnr, coordinatrice del progetto ViVa. “Va considerata la parzialità delle medie statistiche, che mettono insieme situazioni eccellenti con situazioni meno eccellenti e sono calcolate sulle risposte effettive dei centri che avevano a disposizione i numeri delle donne accolte- chiarisce alla Dire- La seconda precauzione che bisogna usare nel leggere l’indagine è che mancano ancora i dati delle regioni, tra cui ci sono situazioni differenti”.

Nel Mezzogiorno, infatti, i centri antiviolenza sono distribuiti a macchia di leopardo, quindi il dato quantitativo non restituisce un quadro di realtà: “In Basilicata, ad esempio, c’è un solo centro, in Calabria sono molto frammentati, in Campania sono molti, come in Sicilia, dove però c’è una bassa affluenza. In Puglia ci sono 24 centri segnalati dalla Regione, quattro fuori dall’intesa Stato-Regioni, per un totale di 28, con un rapporto tra numero dei centri e 100mila donne con 14 e più residente di 1,5”. Un dato superiore alla media italiana di 1,2.

Evidente il limite del dato aggregato, che descrive ma fa perdere le sfumature di una realtà, quella meridionale, in cui incidono anche altri fattori, come quello dell’accessibilità legato ad infrastratture stradali e ferroviarie e alle diverse conformazioni geografiche. Per questo “il terzo step sono i dati qualitativi”, che il Cnr sta raccogliendo in questi mesi nella seconda fase dell’indagine, che prevede interviste in 35 centri antiviolenza, “estratti in un campione ragionato”, più altre strutture specialistiche, per un totale di circa 50 realtà, più cinque incontri con le reti territoriali.

“I centri antiviolenza non sono dei servizi, ma qualcosa di più speciale- precisa Misiti- Non mi è sufficiente sapere quante donne escono, quante entrano e quante prestazioni vengono erogate. È importante anche sapere come viene svolto il lavoro di uscita e accompagnamento delle donne vittime di violenza. Se non si fa uno studio qualitativo che possa restituire questo contenuto appiattiamo il lavoro di centri e case rifugio a un servizio come un altro”.

E tornando ai dati semestrali del ‘Renata Fonte’, altro aspetto interessante per Lanzoni, è il fatto che il 90% delle donne dichiara di aver subito violenza da parte di partner o ex partner e che sono il 65% le donne che hanno richiesto la presa in carico iniziando un percorso di denuncia, contro un 35% che ha dichiarato di voler usufruire dei colloqui di sostegno ma di non voler denunciare per paura di non ricevere un’adeguata protezione per la propria incolumità nel timore di ulteriori reazioni aggressive da parte del maltrattante.

“Questo significa che bisogna lavorare molto di più sulla prevenzione e sulla protezione- avverte la vicepresidente di fondazione Pangea- finanziando i centri e le reti territoriali, senza focalizzarsi solo sulla parte securitaria, come stanno facendo in questo momento storico a livello di proposta parlamentare”.

“Il centro antiviolenza ‘Renata Fonte’, da oltre vent’anni, è luogo dove è possibile progettare il cambiamento e costruire percorsi di libertà con le donne e per le donne- dichiara la presidente del centro, Maria Luisa Toto- L’approccio metodologico è chiaro: si tratta di un approccio di genere, attraverso il quale viene ribadita l’origine patriarcale della violenza. Il centro diventa il luogo dove si riconosce che alla base della violenza c’è lo squilibrio di potere tra i sessi, il luogo nel quale si mette in atto un tentativo di cambiamento culturale che educhi al rispetto tra i generi e al rispetto dei diritti umani, il luogo contro ogni forma di abuso, di esercizio di potere, discriminazione, oppressione e ogni forma di rivittimizzazione”.

“Proprio per questo il centro, che oggi lavora anche in rete con Reama, ha da anni sperimentato una metodologia innovativa ma vincente costituendosi come ‘Testimone delle Donne’ nei procedimenti civili e penali. Riteniamo che la testimonianza del centro- conclude Toto- sia fondamentale per non far sentire la donna sola nemmeno in questa fase e per rappresentare la necessità di abbattere il muro dell’omertà e dell’indifferenza, tra le cause che ancora oggi imprigionano le donne nel silenzio”.

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