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Iraq, Msf nei campi con persone traumatizzate fuggite da Mosul

Tra i casi più incredibili ascoltati dagli specialisti di Msf quello di un genitore costretto a uccidere il proprio figlio perché aveva detto una parolaccia

Pubblicato:12-01-2017 15:02
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 10:47

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ROMA – Sono circa 30mila le persone che, al lancio dell’offesisiva militare per riprendere Mosul, sono scappate dalla città e dai villaggi limitrofi e oggi vivono in campi a Hassansham e Khazer, a 35 chilometri a est di Mosul.

“Hanno subito due anni di occupazione della loro città e dei loro villaggi da parte del cosiddetto Stato Islamico (IS), attacchi aerei, forze irachene che combattevano l’IS. Sono fuggiti per salvarsi la vita e sono arrivati in un campo sfollati. Queste persone sono dovute scappare molto in fretta, senza portare nulla con sé. E adesso si ritrovano confinati in un campo”. A lanciare l’allarme è Bilal Budair, responsabile per Medici Senza Frontiere del progetto di salute mentale a Erbil.

Ogni giorno l’equipe di Msf – composta da uno psichiatra, uno psicologo e un promotore della salute – visita circa 45 pazienti. Dal 2013 seguono i rifugiati siriani nel nord dell’Iraq e nel 2014 hanno iniziato ad assistere sfollati iracheni fuggiti da Mosul quando l’IS ha preso il controllo della regione. Stando a quanto denunciano gli operatori, le condizioni dei pazienti peggiorano dallo scorso anno con l’aumento degli sfollati nel governatorato di Ninewa e l’inizio della battaglia di Mosul a metà ottobre.


Da novembre scorso, si legge nella nota dell’organizzazione umanitaria “i pazienti che consultano i nostri servizi sono decisamente più gravi. Molti ci raccontano che sono stati testimoni di esecuzioni pubbliche al mercato e hanno visto cadaveri impiccati e lasciati per giorni sui ponti sopra il fiume. Morti procurate per decapitazione, lapidazioni, torture e punizioni fisiche. Una violenza tale da lasciare molte persone profondamente traumatizzate“.

Tra i casi più incredibili ascoltati dagli specialisti di Msf quello di un genitore costretto a uccidere il proprio figlio perché aveva detto una parolaccia. Fatti incredibili e inconfutabili quando diverse persone raccontano tutte la medesima storia. Tra le persone che chiedono aiuto ai medici anche coloro che “non avrebbero mai considerato la possibilità di andare da uno psichiatra, ma ora si trovano a chiedere aiuto”.

Tra le cause di sofferenza delle persone sfollate di recente c’è l’essere stati testimoni oculari dei combattimenti nei propri villaggi e quartieri. Assistendo alla morte di amici e parenti. “Una donna è arrivata da noi con il figlio di 10 anni. La figlia di una sua amica è morta quando un colpo di mortaio ha colpito la loro casa. Lei e suo figlio hanno visto il cadavere della bambina, erano amici. Queste persone – continua Budair – sono fuggite da Mosul o dai villaggi circostanti per trovare sicurezza nei campi. Ma sono ancora terrorizzate e vivono nella paura di dover subire ancora la violenza dello Stato Islamico”.



L’equipe di salute mentale di Medici Senza Frontiere nei campi a Hassansham e Khazer offre consultazioni a pazienti che soffrono di depressione grave, ansia, stress acuto o disordini da stress post-traumatico. Tra loro ci sono anche persone che soffrivano di malattie croniche, come epilessia e psicosi, prima che fossero costrette a fuggire e devono riprendere il trattamento. Oltre a questo, altre organizzazioni che forniscono cure mediche di base o supporto psicologico nei campi riferiscono a Msf di pazienti con disturbi del sonno o altri problemi che ostacolano la loro vita quotidiana.

“Trattiamo tutti i casi, dai più lievi ai più gravi – sottolinea il responsabile – Di fatto MSF è l’unica organizzazione a trattare casi gravi e fornire cure psichiatriche. Siamo qui per assistere le persone, identificare le più vulnerabili e aiutare chiunque stia avendo difficoltà ad adattarsi alla situazione”.

Ad essere seguito è anche un uomo sulla cinquantina, che vive nel campo di Khazer 1. Tutti i suoi negozi a Mosul sono stati distrutti. “Non riuscivo a entrare nella tenda. Ho pianto. Vorrei – ha detto l’uomo ai medici – che venissero a uccidere me e tutta la mia famiglia. È come essere in prigione. Ci ho messo 20 anni a costruire la mia casa. Non c’è più niente. Non ho più niente. In tasca non ho nemmeno un dinar”.

Se dopo diverse settimane, la maggior parte degli sfollati inizia ad abituarsi alla vita nei campi, ce ne sono infatti altri che per gli esperti continueranno a sviluppare disturbi più duraturi. Per questo, conclude Budair: “dobbiamo intervenire rapidamente e offrire loro le cure di uno psicologo o di uno psichiatra“.

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