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Vaccino, Abrignani (Cts): “Dopo dose booster, prossimo richiamo tra 5-10 anni”

L'immunologo, membro del Comitato tecnico scientifico, spiega che la terza dose dei vaccini anti-Covid crea una buona memoria immunologica e che non saranno necessari altri richiami a breve termine

Pubblicato:11-11-2021 15:50
Ultimo aggiornamento:11-11-2021 15:50

vaccino covid puntura
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ROMA – L’incubo non è ancora finito. L’Europa torna a essere il palcoscenico della pandemia con contagi in crescita, così come i ricoveri in ospedale. Se in Germania la situazione è preoccupante perché la quota di non vaccinati sembra non contenere il Covid, in Austria, dopo l’imposizione di un lockdown per i ‘no vax’, sono triplicate le vaccinazioni. E mentre in Francia il presidente Macron annuncia la terza dose per i 50enni, il ministro della Salute Roberto Speranza per l’Italia ieri ha dato il via libera alla dose booster a partire da 40 anni.

Per scattare una fotografia della situazione in cui verte il nostro Paese e se, al netto dei 7.891 casi di positività registrate nelle ultime 24 ore, ci sia l’esigenza di un uso ancora più esteso del green pass o addirittura di un confinamento per i non vaccinati sul modello austriaco, l’agenzia di stampa Dire ha raggiunto il professor Sergio Abrignani, immunologo e membro del Cts.


– È stato registrato un ulteriore passo in avanti nella campagna vaccinale. Ieri il ministro Speranza ha detto che dal primo dicembre nel nostro Paese saranno chiamati per la terza dose anche chi ha tra i 40 e i 60 anni ma ‘devono essere passati sei mesi dal completamento del ciclo primario e sempre con mRNA’. Quanto è importante aderire e soprattutto non abbassare la guardia, in questo momento, anche tra i vaccinati?

“È importante che i vaccinati conservino una memoria immunologica. La terza dose non è niente di inconsueto ed è anzi raccomandata in tante schedule vaccinali, come avviene infatti per il vaccino dell’epatite B, del meningococco B, dello pneumococco e così via. Le prime due dosi di vaccino ravvicinate servono ad innescare un’ottima risposta immunitaria e poi la terza dose di richiamo, da effettuare tra i 6 e i 12 mesi dalla seconda dose, ci consente di innescare una buona ‘memoria immunologica’. La terza dose che, come detto, non è niente di inconsueto ed è anzi raccomandata per la maggior parte dei vaccini, serve pure nel caso dei vaccini anti-covid perché in tutto il mondo, a distanza di qualche mese dalla seconda dose, l’efficacia dei vaccini anti-Covid rispetto alla possibilità di contrarre l’infezione scende dal 90 al 70%, anche se scende di poco la protezione dalle forme severe di malattia”.

“Se poi mi si chiede perché lo studio clinico del vaccino anti Cov-19 non ha previsto da subito i test sulla terza dose – prosegue Abrignani – rispondo che eravamo in emergenza e servivano vaccini in tempi brevi per proteggere la popolazione dal virus e non si poteva aspettare che gli studi clinici per la registrazione dei vaccini venissero effettuati in 6-12 mesi anziché in un mese. Ora ci aspettiamo, per similitudine con gli altri vaccini, che dopo la terza dose si instauri una buona memoria immunologica, come dicevo di lungo periodo e che quindi non si renda necessario fare richiami ogni anno, ma ogni 5 o 10 anni come per il resto dei vaccini”.

– Per tutti i ‘no vax irriducibili’, ma anche per quelli che ‘non sono convinti’ dopo mesi di pandemia a sottoporsi alla vaccinazione, si profila un ‘lockdown’ tutto dedicato a loro sul modello austriaco o i nostri numeri del contagio non spingono il Cts a prendere questa decisione?

“La decisione la prenderebbe comunque il Governo e non il Cts. Molti Paesi stanno guardando al ‘lockdown all’austriaca’ ma non penso che in Italia ci sia questa esigenza perché noi, diversamente dagli altri paesi europei, abbiamo optato per l’uso di un green pass esteso sin da subito. Dobbiamo essere fieri se oggi siamo uno dei Paesi migliori per quanto riguarda il numero delle infezioni, di ricoveri in terapia intensiva e di morti. Tutto questo è frutto delle scelte compiute fino ad oggi e che ci stanno premiando. Mi riferisco alla campagna vaccinale intensa che abbiamo condotto e che ha raggiunto l’84% della platea vaccinabile, ma anche all’uso del green pass esteso che se da un lato ha suscitato qualche protesta, dall’altro ci aiuta nel contenimento della pandemia. Non va dimenticato poi che siamo una delle nazioni nelle quali l’uso delle mascherine all’interno dei luoghi chiusi è ancora obbligatorio, mentre molti dei Paesi che sono alle prese con la curva del contagio in crescita avevano abbandonato questa misura da tempo. Questa combinazione di misure è efficace e i numeri del contagio ci dimostrano che il nostro Governo ha compiuto scelte appropriate”.

– Merck corre di più di Pfizer, ma è pronta la pillola per curare l’infezione da Covid-19. In parole semplici qual è il meccanismo alla base e sarà possibile una somministrazione domiciliare oppure è necessaria quella ospedaliera?

“Si tratta di un farmaco antivirale che interferisce con la replicazione del virus e che è indicato per i pazienti che hanno contratto la malattia, fragili e over 60 a rischio di finire in terapia intensiva o di morire. È stato dimostrato alla stregua degli anticorpi monoclonali, che se somministrato nei primi giorni dall’esordio dell’infezione è molto efficace. Le nuove pillole potranno essere assunte a casa? Certamente a differenza degli anticorpi monoclonali che in genere vanno somministrati in infusione endovenosa e per questo richiedono in genere l’ospedalizzazione, il farmaco per via orale dovrebbe non richiedere il ricovero ospedaliero. Tutto dipenderà dalle linee guida decise dal ministero della Salute e dal parere dell’Aifa”.

– Visto che li abbiamo nominati… In Italia gli anticorpi monoclonali come terapia anti Covid-19 non sono mai decollati davvero. È così e perché?

“Gli anticorpi monoclonali che stanno arrivando ora sono più efficaci dei primi, ma questo progresso è normale in medicina. Forse all’inizio per curare i malati di Covid, è vero, non sono stati usati estensivamente ma direi abbastanza. Va anche precisato che non sono farmaci facili da usare e sono indicati per i pazienti a rischio di complicanze severe. In Italia nell’ultimo anno fortunatamente, avendo vaccinato la maggioranza degli ultrasessantenni tanto che di 19milioni sono stati vaccinati circa 17milioni di questi, chi si contagia di più sono i giovani che resistono meglio al virus. Per questo c’è stato meno bisogno di ricorrere agli anticorpi monoclonali”.

– Nei trial clinici il sesso femminile è sempre sottorappresentato rispetto alla platea degli uomini. Da qui si evince che questi vaccini anti Covid-19, come del resto molti altri farmaci di uso quotidiano e da banco, sono testati anche sul piano degli effetti collaterali più sul genere maschile. Da chi e come vengono gestite le segnalazioni degli eventi avversi? Il British Medical Journal riporta la segnalazione ad esempio di irregolarità nel ciclo mestruale, ma anche che non ci sono prove che le cose siano collegate. Da scienziato come la vede?

“Il fatto che vengano arruolate meno donne in età fertile nei trial è normale e anche giusto. Questo perché le donne giovani possono rimanere incinte e quando si studia un farmaco ovviamente non si può sapere se questo può nuocere al feto oppure no. Si ragiona in termini di prevenzione. A quanto mi risulta invece le donne in menopausa vengono parimenti arruolate come gli uomini. Per quello che concerne gli effetti collaterali, quando un farmaco o un vaccino sono registrati segue la Fase 4 che contempla il monitoraggio di tutti gli eventi avversi che si verifichino nella popolazione trattata. È così che è emerso che i vaccini anti-Covid a base di adenovirus come Astrazeneca e Johnson&Johnson, nei giovani inducevano un numero inatteso di trombosi trombocitopeniche, tanto che, anche se erano eventi rarissimi, avendo l’alternativa dei vaccini a mRNA si è deciso di non usarli nella popolazione giovane”.

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