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VIDEO | Gender gap, la consigliera di parità della Regione Lazio: “Cambiare le regole del lavoro”

Vicepresidente Cnel: "Più dimissioni post-maternità, servono misure straordinarie"

Pubblicato:11-11-2019 15:28
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 16:35

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ROMA – Lavorano poco, vengono pagate meno e, come ricorda l’Equale Pay Day, dal 3 novembre e fino al 31 dicembre lavorano gratis. Sono le donne, o meglio, le lavoratrici costrette ancora a rivendicare il principio costituzionale della parità retributiva, il tema al centro di ‘Stop Gender pay gap. Perché esistono ancora differenze retributive tra uomini e donne?‘, il convegno promosso stamattina in Regione Lazio dalla Consigliera regionale di parità del Lazio, alla presenza dell’assessore al Lavoro, Scuola e Formazione della Regione Lazio, Claudio Di Berardino, e della consigliera regionale e presidente della IX Commissione Lavoro, formazione, politiche giovanili, pari opportunità e istruzione, Eleonora Mattia.

“È una tematica fortemente sentita da questa amministrazione e da tutto il Consiglio Regionale”, ha detto la Consigliera regionale di parità supplente, Loredana Pesoli, su cui “bisogna fare una riflessione seria”, in particolare rispetto alle “regole del mercato del lavoro che devono assolutamente cambiare”, ha aggiunto la Consigliera regionale di parità del Lazio, Valentina Cardinali, che nel corso del suo intervento di apertura ha tracciato il quadro in cui si annidano le disparità, a partire dai dati e dallo stesso sistema di misurazione alla base della loro raccolta ed elaborazione.


“L’Ue ci dice che il differenziale retributivo tra uomini e donne in Italia è al 5%”, spiega Cardinali. Una quota in apparenza bassa, che nasconde in realtà “un sistema di calcolo con dei limiti”. Il limite principale è “che fa una media aritmetica in cui tutti contano allo stesso modo, cosa non vera, perché le donne occupate sono solo una piccola parte”. In più, viene comparato “il salario orario”, che però “non tiene conto del fatto che le donne lavorano meno degli uomini“. Per questo, nelle classifiche europee “sembra che i Paesi scandinavi stiano peggio di noi”. Dato che si spiega con il fatto che “le donne occupate in Italia sono una parte selezionata, con profili più alti”, mentre “in Svezia, ad esempio, lavorano tutte. Quindi- spiega la Consigliera di parità- ci sono anche quelle con profili e salari più bassi e si amplia il Gender pay gap”.

Per questo, in base al nuovo indicatore, il Gender overall earnings gap Ue, che tiene conto “della retribuzione oraria media ma anche della media mensile di ore e del tasso di occupazione”, l’Italia sul gap schizza al 44%. Interruzioni di carriera legate alla maternità, minore presenza delle donne ai vertici, valorizzazione esclusivamente legata alla presenza, precarizzazione del lavoro, part-time involontario (non scelto, ndr), tetto di cristallo. Su questi aspetti, i dati che riguardano le donne “sono allarmanti”, sostiene la vicepresidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), Gianna Fracassi. E nonostante nel nostro Paese la parità retributiva sia “un principio garantito dalla Costituzione e dalla legge 198, il contesto che ci troviamo è ben diverso”.

Dal Forum permanente sulla parità di genere, nato nello Cnel, spiega Fracassi, arriva la proposta di “modificare un punto della legge 198, per rendere effettivo ed esigibile il rapporto sulle condizioni delle donne sul luogo di lavoro, provando ad allargare la platea anche alle aziende fino a 50 dipendenti (oggi vale solo per quelle oltre i 100, ndr) e introducendo qualche elemento sanzionatorio in più”. Per la vicepresidente dello Cnel servono “misure straordinarie”, perché “sappiamo che le donne con figli da 0 a 2 anni hanno diminuito la loro partecipazione al mondo del lavoro negli ultimi cinque anni e che il fenomeno delle dimissioni dopo la maternità è diventato molto importante”.

“La maternità ha un effetto netto di perdita di reddito- conferma Cardinali- L’Istat ci dice che per tornare alla retribuzione di prima della maternità ci vuole molto tempo, che a 20 mesi dal parto le donne guadagnano il 12% in meno”. Le donne “lavorano di meno già dal primo figlio e nel 12% dei casi perdono il lavoro”. Come se non bastasse, sono colpite dalla cosiddetta “doppia segregazione“, essendo principalmente impiegate in settori meno remunerativi e in ruoli organizzativi minori rispetto ai colleghi uomini. Fattori che, sommati, rendono chiaro il posizionamento dell’Italia nelle classifiche Ue. Cosa fare? L’Unione europea dà indicazioni chiare sulla “trasparenza e accessibilità a dati e informazioni”, sottolinea Cardinali, ma si può anche agire sulla contrattazione e sulla “consapevolezza di lavoratori e lavoratrici rispetto ai percorsi di studio, sul potenziale discriminatorio nei posti di lavoro e sul persistere degli stereotipi”.

Per Magda Bianco, della Banca d’Italia, “incidere attraverso gli incentivi è sempre una buona idea”, ma bisogna agire anche sulla “discriminazioni implicita” e sullo scarso livello di alfabetizzazione finanziaria delle donne, “che ha un effetto sulle capacità di costruire ricchezza nel corso della propria vita”. Dall’assessore Di Berardino e dalla consigliera Mattia, la conferma dell‘impegno della Regione Lazio sul tema, a partire dalla proposta di legge sul divario salariale di genere.

Un “ottimo punto di partenza” per la Consigliera di parità, che farebbe del Lazio un’avanguardia a livello nazionale. “Questa proposta arriva dopo altre leggi”, chiarisce alla Dire Mattia, che parla di “modello Lazio. Abbiamo da poco approvato la legge 6 del 2019 che introduce nella Regione Lazio il principio dell’equo compenso per tutte le libere professioniste e i liberi professionisti- prosegue- perché dagli ultimi dati Istat sappiamo che i soggetti che subiscono di più la crisi sono loro e i giovani. Inoltre, sempre per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, siamo la prima Regione ad avere una proposta di legge, che mi vede prima firmataria ed è quasi approvata dalla Commissione che presiedo, sulla riforma del sistema integrato di educazione e di istruzione, il cosiddetto 0-6. L’ultima legge che si occupa di asili nido, educazione e istruzione, risale al 1980”.

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