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Iraq, l’antropologo Anber: “Bisogna investire sugli esseri umani”

Lo studioso dell'Iraq Social Forum: "Al caos rispondiamo con l'istruzione"

Pubblicato:11-09-2021 17:35
Ultimo aggiornamento:11-09-2021 17:35

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ROMA – “All’indomani dell’11 settembre, in Iraq la gente ci mise poco a capire che gli attacchi all’America ci avrebbero portato la guerra in casa. La popolazione aveva già attraversato due conflitti e aveva imparato a capire come ragionano gli americani”. Nel 2003 la guerra raggiunse davvero la Mesopotamia: lo ricorda in un’intervista con l’agenzia Dire Wissam Ibrahim Anber, laurea in Antropologia, oggi coordinatore a Baghdad del settore Educazione dell’Iraq Social Forum.


A venti anni dall’attacco al World Trade Center, a cui nel 2003 seguì l’intervento americano per deporre Saddam Hussein, l’Iraq ancora fa i conti con un Paese a pezzi. “Nel 2003 avevo 17 anni” dice l’esperto. “Ricordo bene quei giorni. Gli Stati Uniti ci hanno liberato del peggior dittatore che il Paese abbia mai avuto, d’altra parte ci hanno lasciato anche caos e vuoto di potere: la gente è rimasta in balia delle milizie e dei gruppi terroristi. L’Iraq oggi è in mano alle potenze straniere, come Iran e Arabia Saudita. Siamo un popolo orgoglioso, viviamo male questa condizione”.


E una nuova minaccia si profila all’orizzonte: l’Emirato islamista d’Afghanistan. “Ci preoccupano molto i talebani al potere” dice l’antropologo, che spiega come in questi giorni, più che il ventennale dell’11 settembre e della “guerra al terrore”, i media siano concentrati sulla crisi afghana: “Siamo tutti d’accordo che gli Stati Uniti in Afghanistan abbiano fallito su tutti i fronti, salvo aver eliminato Bin Laden. Hanno indebolito Al-Qaeda, non i talebani”.



In qualità di antropologo, Anber è convinto che “il popolo e la cultura irachena hanno tante qualità che vanno valorizzate e insegnate, anche alla sua stessa gente”. Per questo lo studioso crede nel valore dell’istruzione come chiave per ricostruire il futuro: “Se vuoi lasciarti la guerra e le violenze alle spalle, devi investire negli individui, dando loro istruzione e diritti umani. Ma i nostri politici non la vedono così. L’Iraq investe intorno all’1,8% in istruzione, meno di altri Paesi più poveri del nostro ma che non hanno i nostri problemi: scuole distrutte o assenti, mancanza di insegnanti, internet e computer”.

Un gap, quest’ultimo, che come avverte Anber “ci ha creato enormi problemi per tenere le lezioni a distanza durante la pandemia“. È per questo che Anber ha deciso di dedicarsi nel settore educativo: “In rete con altre associazioni, ho sempre lavorato per migliorare il sistema nel suo complesso a partire dalla collaborazione con il ministero dell’Istruzione, a partire da consulenze per le riforme di legge e le linee guida nazionali”.


Il successo di cui l’antropologo va più orgoglioso è la riforma dei programmi scolastici, portata avanti con l’ong Ufuq Organization For Human Development: “Siamo potuti intervenire su varie materie, come geografia, storia e religione, ottenendo di aggiungere focus speciali sulle minoranze etniche e religiose, per far conoscere ai ragazzi la loro storia e le loro tradizioni. Sono stati gli stessi leader di queste minoranze a chiedere gli approfondimenti a partire da tavoli di lavoro al ministero che abbiamo promosso”.


Interventi di valore, vista la storia dell’Iraq, costellata di conflitti tra comunità e religiosi e di scontri tra milizie espressione di questi gruppi (non ultime, le violenze perpetrate dal gruppo Stato islamico contro yazidi, cristiani, musulmani sciiti e così via). “La gente spesso odia il nemico perché non lo conosce, oppure odia nonostante non lo conosca” dice Anber, che però chiarisce: “La scuola è un ottimo inizio per la riconciliazione ma non basta: il 20% dei bambini in età scolare non va a scuola, una percentuale che raddoppia ai livelli superiori. Bisogna investire nelle persone”.

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