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Trivelle, Anbi dice no: “Suolo affonda e popolazione penalizzata, insensato parlare di ‘transizione ecologica’”

L'Anbi avverte sui rischi dovuti alle trivellazioni: il suolo sprofonda ed il rischio di dissesto aumenta

Pubblicato:11-06-2021 12:43
Ultimo aggiornamento:11-06-2021 12:43

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BOLOGNA – “Non ha senso parlare di transizione ecologica e autorizzare la ripresa delle trivellazioni nell’Alto Adriatico”, non solo perché si tratta di territori a vocazione turistica, ma perché c’è il rischio che si aggravi il fenomeno dell’affondamento del suolo. E che quindi si penalizzino, come già accaduto in passato, le popolazioni che vivono in quelle aree.

Il direttore generale di Anbi (Associazione nazionale dei Consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle Acque irrigue) Massimo Gargano, è contrario alla possibilità di far ripartire le trivelle e con lui si schierano tutti i vertici dell’associazione. A partire dal presidente Francesco Vincenzi, convinto che sia “ingiusto che territori di Veneto ed Emilia-Romagna, fra l’altro importanti asset turistici, rischino di essere penalizzati dalle conseguenze di scelte governative localmente non condivise“.

Dal canto suo, il direttore dei Consorzi di bonifica polesani Giancarlo Mantovani, fa notare che i territori delle province di Rovigo, Ferrara e del comune di Ravenna sono stati interessati dallo sfruttamento di giacimenti di metano dal 1938 al 1964, cosa che “innescò un’accelerazione, nell’abbassamento del suolo, decine di volte superiore ai livelli normali“. Basti pensare, esemplifica, che “agli inizi degli anni ’60 raggiunse punte di 2 metri ed oltre, con una velocità stimabile fino a 25 centimetri all’anno”. Le misure successive, poi, “hanno dimostrato che l’abbassamento del territorio ha avuto punte massime di oltre 3 metri dal 1950 al 1980. Rilievi effettuati dall’Università di Padova hanno evidenziato un ulteriore abbassamento di 50 centimetri nel periodo 1983-2008 nelle zone interne del Delta del Po”.


L'”affondamento” del Polesine e del Delta Padano, dunque, si spiega da Ambi, ha causato un “grave dissesto territoriale” e ha avuto “ripercussioni sull’economia e la vita sociale dell’area”. La conseguenza dell’alterazione dell’equilibrio idraulico “fu infatti lo sconvolgimento del sistema di bonifica”. Tutti i corsi d’acqua si trovarono in uno stato di “piena apparente, perché gli alvei e le sommità arginali si erano abbassate, aumentando la pressione idraulica sulle sponde ed esponendo il territorio a frequenti esondazioni“.

E allora gli impianti idrovori cominciarono a funzionare per un numero di ore di gran lunga superiore a quello precedente, “addirittura il triplo od il quadruplo, con maggior consumo di energia e conseguente aumento delle spese di esercizio a carico dei Consorzi di bonifica”. Per questo, conclude Gargano, “alle popolazioni di questi territori servono segnali concreti nel segno della sostenibilità, non il riproporsi di paure per situazioni che continuano a pagare”.

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