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Cantante profeta, leggenda reggae: 42 anni fa moriva Bob Marley

Impegnato nella difesa dei diritti, con i suoi concerti lanciava messaggi di pace. Colpito dalla malattia, continuò lo stesso a suonare

Pubblicato:11-05-2023 17:16
Ultimo aggiornamento:11-05-2023 17:16

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ROMA – Quando morì, si fermò una nazione intera. E non certo solo per la sua musica, per le sue canzoni, per quel reggae che grazie a lui aveva varcato i confini della Giamaica. Oggi un concerto di Bob Marley verrebbe etichettato come ‘politico’, conquistandosi suo malgrado quelle critiche rivolte ai cantanti che dal palco lanciano messaggi anche sociali. Dall’altra però, otterrebbe quel sostegno di chi invece un tale atteggiamento di un artista lo apprezza.

Quarantadue anni fa, era l’11 maggio 1981, quando da Miami arrivò la notizia della morte di Robert Nesta ‘Bob’ Marley, il dolore che colpì la sua Giamaica fu fortissimo. Perché il ‘profeta del reggae’ non fu amato, seguito e quasi adorato per la sua musica. Nel 1976, era dicembre, Marley fu vittima di un attentato da parte di ignoti, pochi giorni prima del concerto evento ‘Smile Jamaica’, organizzato dal primo ministro locale Micheal Manley: l’obiettivo era quello di alleggerire la tensione nel paese, una tensione non solo politica, visto che i due principali gruppi politici erano in guerra. La moglie si riprese da ferite piuttosto gravi, lui fu ferito solo di striscio dai proiettili sparati dai terroristi. Salì comunque sul palco. Un paio di anni dopo, era il 1978, organizzò lui un concerto politico, ancora nella sua Giamaica, chiamato ‘One Love Peace Concert’. Storica l’immagine che lo vede tra i leader dei due partiti in guerra, Michael Manley ed Edward Seaga, che si stringono le mani mentre lui, tra i due, canta Jammin.

Nato a Nine Mile, un villaggio giamaicano, il 6 febbraio 1945, da padre britannico e madre giamaicana, è giovanissimo, appena 17enne, quando decide di diventare un rasta, ovvero un seguace del Rastafarianesimo, una religione il cui nome deriva da Ras Tafari, usato dall’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié I, per il quale Marley aveva una vera e propria venerazione.


Musicalmente, Marley tenta di introdursi nel mondo della musica nel 1961, incidendo ‘Judge Not’, un singolo che però non ha il successo sperato. La svolta arriva tre anni dopo, quando insieme a Bunny Livingston e Peter Tosh, con cui però le strade si separeranno pochi anni dopo, decide di dar vita ai The Wailers, con cui suonò a più riprese ovunque in giro per il mondo. Nelle sue canzoni tratta temi forti, anche scomodi soprattutto all’epoca, come l’uguaglianza, la lotta contro l’oppressione politica e razziale, l’invito all’unificazione dei popoli di colore come unico modo per raggiungere la libertà. La sua produzione è incredibilmente ampia, tra album storici, come Uprising, Kaya, Surival, Exodus, il postumo Confrontation, e singoli eterni come I Shot the Sheriff, No Woman, No Cry, Is This Love, Natural Mystic, One Love, Exodus, Africa Unite, Catch a Fire, Could You Be Loved, Get Up, Stand Up, Three Little Birds, Jammin’, No More Trouble, Waiting in Vain, Redemption Song, Stir It Up. Il successo del reggae, delle canzoni di Marley, inizia ad essere forte, forse anche troppo. E la valvola si sfogo necessariamente diventa l’oltre confine.

Ci pensa Eric Clapton, che incide una cover di I Shot The Sheriff, regalandole un successo anche superiore a quello dell’originale. Diventa tutto spettacolare, incredibile, per il destino forse anche troppo. È luglio del 1977, infatti, quando inizia il calvario del grande artista giamaicano. Leggenda vuole che durante una partita di calcio, sport che adorava, si sia procurato una ferita all’alluce destro, che però sottovalutò. Durante un’altra partita, però, l’unghia addirittura si staccò, costringendolo ad un controllo medico. La diagnosi fu terribile: melanoma maligno che cresceva sotto l’unghia dell’alluce. Pare, però, che il calcio non c’entrasse nulla, sembra che il male l’avesse già colpito.

Il consiglio dei medici fu quello di amputare il dito, ma Marley rifiutò dando motivazioni legate alla sua religione anche se il motivo vero sembra fu legato alla paura di non poter continuare la sua straordinaria carriera. Nonostante tutto, nonostante il male, Marley continuò a cantare, incise lo storico Uprising nel 1980, ad andare in tour, tra gli altri sempre nel 1980 tenne a San Siro, davanti a 100mila persone, il suo concerto più grande in Europa. Arrivato negli Usa, anche qui per una serie di concerti, qui le sue condizioni di salute peggiorarono: svenne mentre faceva jogging a Central Park. Ormai il cancro si era diffuso in tutto il corpo, il resto del tour fu cancellato. Dopo un tentativo di cura in Germania, prese un volo per la Giamaica per tornare a casa, ma in aereo le sue condizioni peggiorarono e fece scalo a Miami, dove la luce del più grande cantante reggae di tutti i tempi si spense definitivamente l’11 maggio 1981, entrando però nella leggenda.

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