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Donne, Iori: “L’importanza dello scrivere di sè nel ‘lavoro di cura’”

"Le donne hanno capito per prime che gli operatori sono sempre dei guaritori feriti che hanno bisogno di prendersi in primo luogo cura di sé per poter farlo con gli altri"

Pubblicato:11-05-2019 13:23
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 14:27
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ROMA – “Nello scrivere, come dice Maria Zambrano, si cerca di ‘scoprire il segreto’, di rispondere a un’esigenza di liberazione, ma soprattutto si cerca di conferire durevolezza al parlare, di ‘salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria’”. E’ quanto scrive in una nota la senatrice del Pd Vanna Iori, spiegando l’importanza della scrittura nella formazione di sé, nel lavoro di cura e in particolare nell’azione educativa come potente e inaspettato sostegno.

“Ciò che viene affidato alla parola scritta- spiega la Iori- infatti, mette in luce quei ‘moti del cuore’ generalmente taciuti e allontanati dal mondo delle professioni, nella diffusa convinzione che si tratti di dimensioni riconducibili esclusivamene alla vita privata, intima e quindi non qualificanti la vita ‘professionale’ o la conoscenza scientifica. Invece le donne, principali presenze nei percorsi formativi e dentro le istituzioni educative, sociali, sanitarie, hanno imparato molto bene che la soggettività, i sentimenti, la vita emotiva non devono essere messi a tacere sul lavoro. Che per essere professionali non basta attenersi ai canoni di una neutralità in cui le domande ‘emotive’ sono ritenute sconvenienti e addirittura scorrette per il ‘buon funzionamento’ di un servizio”.

“Le donne hanno capito per prime che gli operatori sono sempre dei guaritori feriti che hanno bisogno di prendersi in primo luogo cura di sé per poter farlo con gli altri- continua nella sua riflessione la Iori- l’estromissione della vita emotiva dai contesti professionali ha relegato i sentimenti nell’indicibile. Negare e non nominare i sentimenti può far credere di tenerli sotto controllo, ma porta certamente a manifestarli in forme non sempre corrette o compatibili con le funzioni professionali e, soprattutto, con le proprie risorse emotive. Il vuoto di sapere e di competenze sugli alfabeti dei sentimenti è legato a diverse forme di disagio professionale. Per di più le sole ricerche che hanno studiato la vita emotiva nei contesti del lavoro di cura sono state le ricerche sul burn-out, sull’operatore in cortocircuito. Dunque ricerche che hanno analizzato i sentimenti soltanto come ostacolo. Essi invece, se legittimati e nominati possono essere una preziosa risorsa di benessere professionale. Occorre per questo riconoscerli, coltivarli. Aver cura della vita emotiva. La scrittura è una traccia potente che aiuta narrare i sentimenti e non racconta solo occasionalmente delle relazioni o della consapevolezza di sé, ma è un vero e proprio “luogo interiore di benessere e di cura”, indicato come un arricchimento professionale dalle valenze autoterapeutiche. Il lavoro dell’aver cura ha bisogno di riflessività e saggezza. Riconoscere il sapere dei sentimenti è indispensabile per le professioni che chiamano ad un confronto con le emozioni proprie e altrui. L’autobiografia professionale accresce dunque la consapevolezza. La scrittura obbliga a selezionare con maggiore penetrazione ed essenzialità le situazioni, gli episodi, i vissuti. E diventa occasione per far emergere ciò che sfugge alle logiche cataloganti e quantificanti, alle pratiche codificate dalla routine, che i modi e i tempi dell’organizzazione del lavoro riducono al linguaggio classificatorio e asettico delle “cartelle cliniche” e agli schemi precostituiti dei mansionari. Queste riflessioni scaturiscono certamente da un percorso di ricerca teorica, ma derivano da un concreto lavoro con l’Osservatorio Famiglie del Comune di Reggio Emilia, che ho fondato e diretto per molti anni. In base a questa esperienza posso documentare che non si tratta soltanto di scritture isolate e solitarie. Quando diventa pratica diffusa, la scrittura si offre come luogo di condivisione delle emozioni e dei sentimenti. Sapere di non essere soli ad esperire un cammino aiuta nelle diverse situazioni a ri-significare le esperienze e ad aprire nuovi possibili sentieri di senso. La scrittura di sè aiuta a migliorare la vita del singolo operatore e, dunque, quella della comunità per cui lavora. Abbandonare la logica esclusivamente prestazionale può giovare al lavoro di cura. Abbandoniamo i pregiudizi”.


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