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Dalle Olimpiadi alla guerra in Ucraina, il plotone degli atleti al fronte

Numerosi i campioni che hanno dismesso la divisa sportiva per imbracciare il fucile

Pubblicato:11-03-2022 13:15
Ultimo aggiornamento:11-03-2022 15:40

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ROMA – Nella foto da battaglia Andrii Tkachuk ha gli occhi piccoli per la luce e la stanchezza, lui che della stanchezza ha fatto un mestiere. Tanto da rivendicarla pure ora che è ricoverato in un ospedale nel sud dell’Ucraina in attesa che un chirurgo gli tolga le schegge di un proiettile dalla spalla e lo rispedisca al fronte. A combattere i russi. Tkachuk prima di farsi ritrarre in mimetica abbracciato ad un AK 74 faceva l’ultrarunner. Aveva i capelli lunghi e rossi e un barbone incolto. Ora racconta che quella resistenza lo tiene in piedi in guerra, l’allenamento mentale gli è servito a sopportare il dolore delle ferite alla quinta notte sotto zero, dopo che una bomba aveva fatto saltare in aria una casa a pochi metri da lui e i suoi compagni. Due di loro, dice, “erano tutti bucherellati”.

Era il 28 aprile 1967 quando Muhammad Ali rifiutò di partire per il Vietnam, dichiarandosi pubblicamente obiettore di coscienza: venne arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi e della licenza da pugile. Era un altro mondo. Adesso, a due passi dall’Europa c’è una fila di atleti che incrocia i civili in fuga dall’Ucraina, in senso opposto. Gente che un attimo prima giocava a tennis, saliva sul podio alle Olimpiadi, combatteva sul ring, correva, sciava e sparava ad un bersaglio disteso sulla neve di Pechino. Non si contano quasi più.

Lo sport volontario al fronte è un inedito della modernità: a un mese dalle Olimpiadi invernali la corsa alle armi per difendere l’Ucraina dall’invasione russa segna uno scarto esistenziale. La cerimonia d’apertura con Putin addormentato sugli spalti pare spuntare da un buco nero, da un’altra storia, e invece è stata cronaca spicciola d’un attimo fa. Il caffè dopo i maccheroni con Bach, il presidente del Cio a gozzovigliare col despota. Un aperitivo prima dell’escalation militare, manco lo sport fosse un argine alle follie della geopolitica. O, meglio, un altro mondo.


Ora sotto le bombe ci sono l’ex campione di ciclismo Andrei Tchmil, il fuoriclasse del nuoto Mykhaylo Romanchuk che Gregorio Paltrinieri ha provato a convincere a venire in Italia (“preferisce restare lì, vuole combattere fino alla fine”). C’è Yuliia Dzhima, oro olimpico nella staffetta del biathlon a Sochi 2014. C’è Dmytro Pidruchnyi, altro biatleta campione del mondo dell’inseguimento a Oestersund 2019. Un altro ancora, Bohdan Tsymbal, nono in staffetta a Pechino, è chiuso in un bunker a Sumy, col figlio neonato in braccio. La sua foto ha già fatto il giro del web un paio di volte per tornare a casa, tra le rovine di un rifugio antiaereo.

E poi c’è Dmytro Mazurtsjuk, che a Pechino ha gareggiato nella combinata nordica. E Vasyl Lomachenko, campione olimpico dei pesi leggeri nel 2012 e campione del mondo in tre diverse categorie: se la storia non si fosse fermata ora sarebbe sul ring per riconquistare la cintura dei pesi leggeri e invece combatte sparando. C’è Oleksandr Usyk, campione del mondo dei pesi massimi. Ci sono i fratelli Klitschko, i volti più riconoscibili della resistenza ucraina. C’è Sergiy Stakhovsky, tennista numero 240 del ranking Atp, uno che ha battuto Roger Federer al secondo turno di Wimbledon nel 2013. Dice che un’arma la sa usare, più o meno. C’è Sasha Volkov, uno dei più grandi cestisti europei di sempre: oro olimpico a Seul con l’URSS (in totale 6 medaglie), fu il primo sovietico a giocare in NBA, ad Atlanta, passò pure per Reggio Calabria. Altri, molti altri, si sono auto-convocati. Una divisa per un’altra, con la realtà sospesa tutt’attorno.

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