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Italiani all’estero, solo merce di scambio

di Barbara Varchetta,  (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali) Il tragico epilogo del rapimento dei quattro italiani in Libia, protrattosi

Pubblicato:11-03-2016 15:33
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 22:22

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di Barbara Varchetta (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali)

Il tragico epilogo del rapimento dei quattro italiani in Libia, protrattosi per ben otto mesi e conclusosi con la morte di due dei tecnici che si trovavano in quei territori non già per un ameno tour dell’Africa del Nord ma per adempiere ai loro doveri lavorativi; le torture a Giulio Regeni (ricercatore universitario e non agente segreto in missione, come pure qualcuno aveva, inizialmente, tentato di insinuare), atte a cagionarne una morte lenta e dolorosa, verosimilmente inflitte dalle autorità egiziane nel tentativo di estorcergli rivelazioni e notizie legate alle sue ricerche sul locale regime autoritario; i quattro anni trascorsi nel limbo (e scanditi da gravi implicazioni psicologiche e fisiche) da parte dei fucilieri della Marina Militare italiana, Girone e Latorre, accusati di aver ucciso, nell’esercizio delle loro funzioni, due pescatori indiani in una zona ad altissimo rischio di pirateria e nell’ambito di una missione internazionale finalizzata al contrasto del fenomeno criminale. Tutti elementi che, apparentemente, nulla hanno in comune tra di loro ma che, a ben osservare, contribuiscono a delineare l’approccio politico ed operativo del nostro Paese verso questioni che interessano la tutela e la protezione degli italiani operanti all’estero nonché i rapporti con le rispettive nazioni coinvolte.

E’ alquanto raccapricciante constatare che, ai fini di una presunta ed unilaterale ricerca di equilibrio nei rapporti tra Stati ed in nome di consistenti relazioni commerciali ed economiche, l’Italia continui ad arretrare quasi intimorita al cospetto di improbabili governi con i quali anche il dialogo istituzionale appare impraticabile in ragione della diversità strutturale e concettuale dell’entità-Stato: non è possibile aspettarsi il rispetto delle regole di correttezza e reciprocità, prerogativa esclusiva degli Stati democratici, né l’osservanza di princìpi di diritto internazionale, ampiamente condivisi soltanto da quei Paesi che vantano una profonda storia giuridica e liberale, da quelle compagini di governo, spesso autoproclamatesi e caratterizzate dal costante ricorso all’uso illegittimo della forza durante le loro esperienze di regime.


E’ stato pertanto pretenzioso da parte delle istituzioni italiane credere di poter trattare in condizioni paritarie con l’India, la Libia e l’Egitto, senza mettere in conto che i rapporti in atto potessero non garantire il buon esito delle vicende in discussione proprio in ragione dell’assenza di un interlocutore legittimato ed attendibile.

Quali che fossero le contromisure da intraprendere e qualunque costo queste avessero avuto, l’Italia non avrebbe mai dovuto consentire l’ulteriore scempio perpetrato persino sui cadaveri dei nostri connazionali da parte delle autorità libiche ed egiziane col solo fine di insabbiare le reali dinamiche degli eventi ed impedire che fosse fatta chiarezza sulle oggettive responsabilità di ciascuno: né la tardiva accettazione della collaborazione italiana nelle indagini restituirà la verità ad alcuno; non vi sono più le condizioni, il materiale probatorio è irrimediabilmente deteriorato, gli ulteriori esami autoptici sono già in origine inficiati da quelli eseguiti all’estero, peraltro contro la volontà delle famiglie e dello stesso governo italiano.

Non occorre altro per decretare il fallimento nella gestione dei casi Regeni, Failla e Piano.

Si è però ancora in tempo per operare dignitosamente nella vicenda marò, un procedimento che avrebbe dovuto incanalarsi in tutt’altra direzione sin dall’inizio, risultando piuttosto evidenti il difetto della giurisdizione indiana (l’uccisone dei pescatori è avvenuta in acque internazionali e su una nave battente bandiera italiana) nonché l’immunità di funzione di cui avrebbero dovuto godere i due militari di fronte all’autorità giudiziaria indiana; militari, che nel loro agire, rappresentavano organi dello Stato italiano in terra straniera. Così non è stato. Ancora una volta si è preferito abbandonare due italiani al loro destino per non incrinare i “buoni rapporti” con questo o quel Paese. Viene da chiedersi, però, a quale prezzo e se, anche sul piano delle relazioni internazionali, la considerazione che gli alleati riservano all’Italia sia o no lusinghiera.

Ed infine, in via del tutto provocatoria: se le vittime e i militari coinvolti in queste vicende fossero stati di nazionalità americana, la gestione degli eventi ed il loro esito sarebbero stati i medesimi?

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