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Codice rosso, Palladino (Ass. D.I.Re.): “E’ propaganda inutile”

ROMA - "Il 'Codice rosso' è uno slogan, una propaganda inutile, non serve a nulla, perché questa cosa giusta di

Pubblicato:11-01-2019 16:41
Ultimo aggiornamento:11-01-2019 16:41

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ROMA – “Il ‘Codice rosso‘ è uno slogan, una propaganda inutile, non serve a nulla, perché questa cosa giusta di accorciare i tempi dovrebbe valere per tutto, non soltanto per i primi tre giorni, per l’ascolto. Comunque poi le donne non vengono credute, i tempi dei procedimenti e dei rinvii a giudizio sono lunghissimi e, spesso, si risolve tutto con l’assoluzione dell’autore o con pene ridicole. Tra l’altro esiste già una legge che prevede una corsia privilegiata per la tutela delle donne, bisognerebbe solo applicare bene le normative esistenti”. Così all’agenzia di stampa Dire la presidente dell’associazione nazionale D.i.Re. ‘Donne in rete contro la violenza’, Raffaella Palladino, sul ‘Codice rosso’, il disegno di legge recante ‘Modifiche al Codice di Procedura Penale: disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere’.

PALLADINO: “SENTENZA IANNIBELLI A TORINO SCORAGGIA DENUNCE”

“Interpretiamo la sentenza di Torino come l’ennesima dimostrazione del fatto che in Italia c’è bisogno di un grandissimo cambio di cultura e che anche i magistrati hanno bisogno di una formazione specifica. Non tecnica, normativa, ma una formazione che serva ad accogliere un’ottica di genere, a rendersi conto che c’è un problema grande di discriminazione che non va sottovalutato. Non possiamo giudicare l’esistenza di maltrattamento in famiglia contando le volte in cui una donna è andata in Pronto Soccorso. Con queste sentenze si rischia di scoraggiare le donne che vogliono denunciare”. 

È il lapidario giudizio della presidente dell’associazione nazionale D.i.Re. ‘Donne in rete contro la violenza’, Raffaella Palladino, sulla sentenza pronunciata dalla giudice della quinta sezione penale di Torino Maria Iannibelli, che ha assolto un 41ennne disoccupato accusato dalla compagna di maltrattamenti in famiglia dopo essersi recata nove volte in otto anni in Pronto Soccorso. 


“Non c’è collegamento tra i referti medici portati dall’accusa e le liti o le presunte aggressioni”, ha spiegato in aula il legale della difesa Vincenzo Coluccio, tesi accolta da Iannibelli nonostante il pm Dionigi Tibone avesse chiesto una condanna di oltre tre anni a carico dell’imputato.

LE DONNE NON VENGONO CREDUTE 

“Come al solito il problema principale è che non si dà credito alla parola delle donne- sottolinea Palladino all’agenzia di stampa Dire- perché non si ha in testa la violenza e si continua a ignorare quanto detto dalla convenzione di Istanbul, cioè che c’è connessione tra l’esistenza della violenza e le discriminazioni di genere”. Un punto che “chi deve giudicare non ha ben chiaro” e porta ad interpretare la legge distinguendo tra “l’episodio occasionale e il reiterarsi di episodi”, che configura il reato di maltrattamento. “Oggi a denunciare sono le più coraggiose- avverte la presidente di D.i.Re.- Molte ci dicono: ‘ma che ci vado a fare in tribunale’, magari perché sono madri e hanno paura di perdere i figli”. La situazione, da questo punto di vista, “negli ultimi due-tre anni è peggiorata- denuncia Palladino- molto spesso le consulenze tecniche d’ufficio chieste dai magistrati tirano fuori dei quadri di madri inadeguate e al danno si aggiunge la beffa che la madre non può tenere con sé i figli, perché ritenuta con scarse competenze genitoriali”.

IL VERO NEMICO E’ LA VIOLENZA PSICOLOGICA

“Noi sappiamo che se arriva uno schiaffo, prima ci sarà stata per molto tempo e in maniera cronicizzata una violenza psicologica” spiega la presidente di D.i.Re., che precisa: “Se abbiamo presente il meccanismo della violenza maschile sappiamo che si può pure tenere sotto controllo l’esplosione della violenza fisica per mesi, però a costo che la donna non dica mai dei no, che ‘cammini sulle uova’, com’è stato molto ben descritto in letteratura”. Strategie di sopravvivenza che, però, non sempre funzionano: “Una donna va in Pronto Soccorso a denunciare l’episodio più grave, quello per cui si è spaventata o si è fatta veramente male, ma è solo la punta dell’iceberg, come confermano la ricerca scientifica e le esperienze trentennali di lavoro con le donne”. È la violenza psicologica, quindi, il vero nemico, secondo Palladino, perché “viene refertata solo quando arriva insieme ad una traumatizzazione forte e importante”, ma c’è, esiste in “tantissimi altri momenti”.

DESCRIZIONI DETTAGLIATE DELLE VIOLENZE? SONO PROCESSO ALLA VITTIMA 

“Siamo di fronte al ribaltamento delle responsabilità, caratteristica di quella che viene definita la vittimizzazione secondaria- aggiunge Palladino- È come se la donna, oltretutto, deve fare la gran fatica di ricordare, di raccontare, di farlo e farlo ancora, perché va a sporgere denuncia, poi viene ascoltata, poi c’è l’incidente probatorio quando viene richiesto, poi va in tribunale”. Un percorso estenuante che spesso le vittime di violenza non sono in grado di sostenere: “Quando le donne maltrattate vengono da noi, spesso i loro racconti non sono coerenti e chiari, perché si tratta di una dimensione emotiva devastante in un contesto di relazioni affettive. A volte addirittura non ricordano le date di nascita dei figli e le proprie generalità, confondono gli anni e gli episodi”. Una conseguenza del clima di intimidazione in cui vivono quotidianamente, di cui i magistrati dovrebbero tener conto. “Le leggi ci sono, quello italiano non è un cattivo sistema normativo, il problema è che non vengono applicate”. La parola d’ordine è, quindi, ‘formazione’, “priorità del piano nazionale antiviolenza- aggiunge Palladino- che sta provando a privilegiare la formazione a tappeto di tutti gli operatori che intervengono sulla violenza, dal ministero dell’Interno, alla Giustizia, alla Salute, all’Istruzione. La spinta deve arrivare dalle forze politiche, ci deve essere una programmazione e una volontà vera di prevenire e contrastare la violenza. Tra un po’ arriverà l’8 marzo, per cui ne risentiremo parlare. Però di fatto le risorse sono pochissime e l’attenzione- conclude- è altalenante”.

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA, GARISTO: “CONCETTO ABITUALITA’ VA INTERPRETATO BENE”

“Il magistrato deve avere la competenza e la preparazione specifica per riconoscere che l’abitualità voluta dalla norma per il reato di maltrattamenti in famiglia non viene meno con l’alternanza tra periodi di violenza e sopraffazione e altri di apparente riconciliazione. Se la donna denuncia e riferisce di episodi violenti che l’hanno portata per nove volte in otto anni a rivolgersi al Pronto Soccorso, va creduta anche se a distanza di anni (in questo caso almeno una decina) non fosse in grado di descrivere la dinamica precisa dell’aggressione fisica, così da poterla confrontare e sovrapporre al referto medico affinché ci sia perfetta coincidenza. Fino a quando i giudici, con adeguata formazione e preparazione, non saranno in grado di riconoscere la violenza nei rapporti dì intimità e i meccanismi psicologici che ne derivano, anche se contraddittori e illogici, sarà difficile ottenere giustizia”. Così all’agenzia di stampa Dire l’avvocata penalista Francesca Garisto, del gruppo tecnico di avvocate dell’associazione D.i.Re. ‘Donne in rete contro la violenza’ (che riunisce professioniste specializzate nella difesa dei diritti delle donne lesi dalla violenza maschile) sulla sentenza pronunciata dalla giudice della quinta sezione penale di Torino Maria Iannibelli, che ha assolto un 41ennne disoccupato accusato dalla compagna di maltrattamenti in famiglia dopo essersi recata nove volte in otto anni in Pronto Soccorso.

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA, UN ‘REATO ABITUALE’

“Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato abituale, ovvero affinché sia integrato, è necessario che la condotta vessatoria e di sopraffazione, tale da causare alla vittima uno stato di prostrazione e umiliazione, sia abituale” spiega Garisto, che chiarisce a livello tecnico il concetto di ‘abitualità’: “L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza nel tempo si è modificata tanto da avere riconosciuto che può riscontrarsi l’abitualità richiesta dalla norma, anche qualora, a periodi di violenza e sopraffazione, ne seguano altri di apparente riconciliazione in cui il maltrattante si mostri pentito e intenzionato a riparare alle offese arrecate e la vittima assecondi il desiderio di riconciliazione, se si tratta di una alternanza altrettanto abituale tanto da non eludere la volontà di sopraffazione”. 

Un’interpretazione basata sull’esperienza “che ci porta a riconoscere che la cosiddetta fase ‘di luna di miele’ che segue agli accessi violenti, di natura fisica o psicologica, economica o sessuale, è talmente tipica e ricorrente, da essere riconosciuta come integrante la condotta di maltrattamento”. Tregue dalle aggressioni che non devono trarre in inganno, quindi, perché strumento di quel dominio guadagnato dal maltrattante a spese della vittima, che viene convinta “della sua inadeguatezza e incapacità di corrispondere alle aspettative del suo carnefice, con il risultato di riuscire ad ‘ammansirla’ e annullarla”.

COME VALUTARE LA CREDIBILITA’ DELLE DONNE 

“La credibilità delle donne- sottolinea l’avvocata Garisto- va valutata con ben altri criteri e presupposti che sono diversi da quelli adottati per diverse vicende: la sua sofferenza, la sua paura, la sua coerenza nel racconto, la forza con la quale finalmente riesce a chiedere giustizia”. La falla, secondo l’avvocata, non è nel sistema normativo, ma nella “mancanza di profonda conoscenza della violenza nei rapporti di intimità da parte, non solo di una parte della magistratura, ma anche di molti operatori (dei servizi sociali ad esempio) che devono affiancare le vittime”. Una sensibilità che, secondo la penalista, “va aumentando laddove ci sia stata una formazione adeguata, ma è ancora sporadica”. A cambiare deve essere “la cultura che alimenta gli stereotipi dannosi” sulle donne, continua la penalista, “a cui bisogna credere, senza se e senza ma, se vogliamo davvero che il fenomeno emerga”.

COME ARRIVARE AD UNA CONDANNA PER MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA? 

“Consiglio alle donne di parlare di quello che subiscono con persone che sappiano ascoltare e possano riscontrare nel tempo e nelle varie fasi della loro presa di consapevolezza, la loro genuina sofferenza oltre che, in alcuni casi, anche i segni fisici della violenza- continua Garisto- Le testimonianze di chi ha raccolto questo dolore, saranno preziose per la valutazione della credibilità della donna”. Denunciare serve, sostiene l’avvocata, perché è l’unico modo per “portare nei tribunali le nostre battaglie per il riconoscimento della violenza in tutte le sue declinazione, ma senza un adeguato accompagnamento e supporto- conclude la penalista- le donne da sole rischiano di restare frustrate nella loro aspettativa di riconoscimento di quanto patito e duplicare la loro vittimizzazione”.

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