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Il ruolo del pediatra per le famiglie? Dare info corrette: ecco il focus della Società italiana di pediatria

Su covid e sindromi correlate; Marchesi: "3.780 casi curati a casa"

Pubblicato:10-06-2020 15:48
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:28

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ROMA – Nella gestione dell’emergenza Covid-19, il pediatra deve dare alle famiglie informazioni corrette e di qualità, per non generare confusione. Parte da questo assunto il focus di Alessandra Marchesi, pediatra dell’Unità operativa complessa di Pediatria Generale e Malattie Infettive dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, nonché referente della Società italiana di pediatria (Sip) sulla malattia di Kawasaki, intervenendo al convegno scientifico telematico ‘Il bambino al tempo del Covid-19’ promosso dal Sindacato italiano specialisti pediatri (Sispe).

“In età pediatrica la maggior parte dei casi positivi al Sars-Cov-2 (3.780 pazienti sul totale dei 4.406) sono stati trattati a domicilio, i minori ospedalizzati sono stati solo 105 e tutti nella fascia d’età 0-1 anno”, aggiunge Marchesi. Questi sono “dati confortanti, ma devono ricordarci che i pazienti sotto i 12 mesi sono quelli da attenzionare. Per noi pediatri- ricorda la referente della Sip- sono sempre stati considerati come i pazienti più fragili, perché possono rapidamente peggiorare nei quadri clinici”. Sui cinque bambini deceduti in Italia, Marchesi chiarisce che “erano pazienti che già presentavano gravi patologie metaboliche cardiopatie e neoplasie”.


NEONATI SI AMMALANO E POSSONO CONTAGIARE

“I neonati non sono meno suscettibili a contrarre l’infezione e sono in grado di trasmettere l’infezione stessa rispetto agli adulti. Sappiamo che le misure di contenimento e l’assenza di frequenza scolastica hanno tutelato questa fascia di pazienti- continua la studiosa- anche se per l’età pediatrica, essendo gravata da minori patologie associate, il decorso dell’infezione è migliore. I bambini sono stati meno esposti al fumo e all’inquinamento, quindi presentano una situazione polmonare decisamente migliore rispetto alla popolazione adulta”. Tuttavia, il ruolo chiave nell’ammalarsi di meno è rappresentato da una bassa espressione genica del recettore per la Sars-Cov-2: “E’ il recettore dell’enzima2 di conversione dell’angiotenzina (ACE2) e diversi studi hanno osservato che questa espressione genica è molto più bassa nei bambini sotto i 10 anni- continua Marchesi- ed è via via crescente con l’aumentare dell’età”.

GENITORI ATTENTI A TRASMISSIBILITÀ VIRUS PER VIA ORO-FECALE 

“Nella popolazione pediatrica riveste molta importanza la via oro-fecale. Il Covid-19 può persistere attivo nelle feci dei pazienti infetti anche molto tempo dopo la negativizzazione delle secrezioni rinofaringee. Questo può far ipotizzare- aggiunge la pediatra- che la sua trasmissione possa avvenire, oltre che per via aerea, anche tramite feci/gas intestinale. Occorre quindi che i genitori prestino particolare attenzione nel trattare i pannolini o altro materiale venuto a contatto con le feci. Non esistono, invece, evidenze al momento sulla trasmissione per via placentare o per via del latte materno”.

NO MARKER SINTOMI SPECIFICI COVID-19 IN ETÀ PEDIATRICA 

“I nostri pazienti potrebbero essere classificati in 5 gruppi clinici- fa sapere l’esperta- che vanno dai quelli con infezione asintomatica fino ai quadri non solo gravi, ma addirittura critici. La peculiarità della sintomatologia in età pediatrica è che – oltre ai sintomi quali febbre, tosse, affaticamento, nevralgie, sintomatologia a carico delle prime vie aeree e delle vie gastroenteriche – alcuni pazienti potrebbero presentare non solo febbre, ma anche altri sintomi. Uno studio su 100 bimbi positivi al Covid-19 che hanno fatto accesso ai pronti soccorsi di 17 ospedali italiani- racconta Marchesi- dimostra che solo il 52% di questi pazienti presentava febbre e altri sintomi indicativi del Coronavirus. Questo risultato in realtà ci deve allertare molto, poiché non abbiamo dei marker di sintomi specifici”.

IN EUROPA E REGNO UNITO 230 CASI SINDROME MULTISISTEMICA

Per quanto riguarda la sindrome infiammatoria acuta multisistemica in età pediatrica e adolescenziale, “nelle famiglie si è scatenato il panico dove i pazienti avevano già avuto malattia di Kawasaki negli anni precedenti. L’Istituto superiore di sanità (Iss) ha ritenuto necessario di porre precise indicazioni sia sulla sindrome di kawaski che su quella multisistemica. Noi- continua Marchesi- abbiamo fatto parte di un panel di esperti per chiarire che la sindrome multisistemica è stata rilevata in vari paesi. È una patologia che presenta alcuni sintomi ‘like Kawasaki’, ma possiede anche peculiari caratteristiche. Ad interessarsene sono stati anche l’Oms e l’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) con due comunicazioni risalenti a maggio. In Europa e nel Regno Unito sono stati osservati 230 casi con 2 decessi. L’età media di insorgenza è di 7-8 anni fino a 17 anni– sottolinea la pediatra- e c’è un interessamento multisistemico grave, con la necessità di ricovero talvolta in terapia intensiva. Sono forme cliniche la cui insorgenza si è manifestata a distanza di 2-4 settimane dal picco di infezione Sars-Cov.2, facendo pensare a una patogenesi immunomediata e non legata direttamente all’infezione del Coronavirus. L’Oms ha posto molta attenzione a questa sindrome multisistemica, definendo come fascia di popolazione a rischio quella dai 0 ai 19 anni che mostrava febbre da più di 3 giorni e almeno la presenza di due tra i seguenti sintomi: rush cutaneo, congiuntivite bilaterale non purulenta o segni di infiammazione muco-cutanea (bocca, mani o piedi); ipotensione o shock; disfunzioni del miocardio, pericardite, valvulite o anomalie coronariche; evidenze di coagulopatia; disturbi gastrointestinali. Il tutto deve essere associato a marker infiammatori elevati, in assenza di altre possibili cause che potessero spiegare questo quadro clinico e in presenza di una evidenza di infezione da Covid-19 o di contatto con pazienti positivi al virus”. L’Ecdc, pur rilevando una connessione causale tra il Covid e la sindrome multisistemica, “sottolinea che questa relazione è ancora da dimostrare. Al momento non esiste una definizione di caso che sia condivisa a livello europeo”.

QUALE INFORMAZIONE DARE ALLE FAMIGLIE 

I pediatri devono informare le famiglie sul corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. “Il ministero della Salute ha stabilito che la mascherina può essere indossata a partire dai 6 anni, ma i pediatri sanno benissimo che può essere indossata già dai due anni. Dobbiamo informare i genitori sul corretto utilizzo della mascherina– sottolinea Marchesi- sulla copertura di naso e bocca e sull’uso di questo dispositivo sempre nei luoghi chiusi e dove c’è difficoltà nel rispettare la distanza di sicurezza. All’aperto la mascherina va indossata solo nel caso in cui la distanza di due metri non riesca ad essere mantenuta e in presenza di soggetti fragili, come i nonni. Non dimentichiamo il lavaggio delle mani“. In presenza di bambini con bisogni speciali, “il pediatra deve rimarcare l’importanza dell’uso della mascherina chirurgica all’interno delle famiglie in cui ci sono appunto dei bambini più a rischio di contrarre l’infezione. Con i bimbi immunocompromessi- conclude Marchesi- deve essere suggerito l’uso della mascherina FFP2 o FFP3. Infine, con i bambini che hanno gravi problemi neurologici o respiratori bisognerà rispettare il distanziamento sociale ed evitare i luoghi affollati”.

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