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ROMA – Grida di gioia e colpi contro le sbarre provengono dalle celle ancora chiuse: porte di ferro sigillate, che hanno solo strette feritoie nella parte alta, sembrano non riuscire più a contenere l’entusiasmo di chi, dietro quelle porte, ha trascorso anni, anche decenni, per aver rifiutato di sparare contro civili ma anche semplicemente per un post su Facebook di critica contro il governo siriano: sono i detenuti del carcere di Saydanya, 30 chilometri a nord di Damasco, noto come “il mattatoio umano”, nel momento in cui entrano i liberatori. Poi, la corsa verso l’uscita, “finalmente siamo liberi”, esultano i carcerati. A diffondere i video sui social network sono attivisti. Questo è un altro effetto della caduta del governo della famiglia Assad, con la presa nella notte della capitale Damasco da parte dei ribelli e la fuga all’estero del presidente Bashar.
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Così, decine di centri di detenzione, ufficiali e “informali”, stanno aprendo le loro porte sia grazie ai ribelli ma in alcuni casi per effetto delle defezioni tra i ranghi di polizia ed esercito regolare. Stime del Syrian Network for Human Rights (Snhr) indicano che in Siria ci siano 136mila prigionieri politici, persone incarcerate per le loro idee o per aver preso parte a una protesta. Tra loro c’è anche Ragheed Al-Tatari, noto come “il decano dei detenuti”: 70 anni, di cui 43 trascorsi dietro le sbarre.
Era il 1980 quando venne arrestato: “Era pilota dell’aeronautica militare e un giorno, durante la repressione delle proteste ad Hama si rifiutò di obbedire all’ordine di bombardare i civili”: ne parla con l’agenzia Dire Razan Rashidi, direttrice di The Syria Campaign, associazione siriana che lotta per i diritti umani e riforme democratiche. “Ragheed è libero, ha lasciato il carcere di Tartous, lo abbiamo appena saputo: la sua famiglia è al settimo cielo, il figlio Walil non lo ha ancora mai conosciuto”.
Rashidi, a sua volta esule all’estero per ragioni di sicurezza, condivide una foto dell’uomo, ormai anziano. Nello scatto sorride e ha gli occhi che brillano. “Non è il solo” continua l’attivista. “Stiamo ricevendo moltissimi messaggi di famiglie finalmente riunite: sono state liberate anche le donne coi loro bambini”.
Nel video che invia, le detenute varcano quasi incredule celle sovraffollate, piene anche di bambini. Il tema dei detenuti di coscienza e delle persone sottoposte a sparizione forzata – anche l’Italia vanta un caso, quello del sacerdote padre Paolo Dall’Oglio, scomparso nel 2013 a Raqqa – sottoposti a torture e condizioni di prigionia “inumane” senza poter vedere familiari e avvocati, è stato al centro di processi giudiziari in Germania e Francia. Nel primo caso, un tribunale di Coblenza ha processato Anwar Ruslan, un ufficiale dell’esercito siriano per aver ordinato arresti arbitrari, sparizioni forzate, torture e uccisioni a danno di manifestanti, e infine è stato condannato al carcere a vita. Nel secondo, solo pochi mesi fa, la corte d’appello di Parigi ha confermato il mandato d’arresto internazionale per Bashar Al-Assad per complicità in crimini di guerra e contro l’umanità. “Ora- riprende Rashidi- ci auguriamo che la Corte penale internazionale si muova contro di lui”.
Al tempo stesso, secondo l’attivista, “è imperativo che tutte le prove siano messe in sicurezza: bisogna registrare tutti i nomi, l’età, i dettagli personali di chi era in carcere, e poi scattare foto alle strutture, conservare documenti digitali e cartacei, tutto. Serviranno a rendere giustizia alle vittime e soprattutto a dare informazioni alle centinaia di famiglie esuli all’estero che attendono notizie da anni”.
E poi c’è un altro timore: “Uccisioni di massa, per vendetta e nascondere le prove, nelle prigioni informali: non sarebbe una novità”.
Tra i siriani, sia quelli all’estero – a milioni hanno lasciato il Paese dal 2011 – sia quelli a Damasco e altrove, “c’è gioia per la fine della dittatura e paura per il futuro. Ma noi chiediamo una transizione finalmente democratica dove il popolo abbia voce nel futuro politico. Noi di The Syria Campaign chiediamo il rispetto della risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. Il riferimento è a un testo del 2015 che chiede il cessate il fuoco immediato e traccia le tappe di una transizione politica guidata dai siriani e nuove elezioni entro 18 mesi.
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