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Elisabetta II, quegli addii alla corona dall’Africa e dai Caraibi

Storie e cronache dai paesi del Sud che hanno preferito la Repubblica

Pubblicato:09-09-2022 16:41
Ultimo aggiornamento:09-09-2022 16:41

Elisabetta II
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Crediti Vintage Mauritius

ROMA – I “più sentiti auguri di felicità, pace e prosperità per il futuro” scriveva Elisabetta II il 30 novembre scorso, pochi mesi prima di ritirarsi nel castello scozzese di Balmoral. Era una giornata definitiva di una storia difficile, imperiale e tragica. Le Barbados dicevano addio alla monarchia britannica per scegliere la repubblica, dopo 400 anni di dominio coloniale e fedeltà alla corona. Lei, la regina, che come capo del Commonwealth aveva mantenuto il ruolo di sovrana delle isole caraibiche anche dopo l’indipendenza del 1966, aveva aggiunto che quel paradiso restava nel suo cuore come “un luogo speciale”. La sera era stata festa a Bridgetown, la capitale. Nel cinquantacinquesimo anniversario dell’indipendenza Sandra Mason diventava la prima presidente della repubblica. Con lei c’erano altre due donne: la prima ministra Mia Mottley e Robyn Rihanna Fenty, per tutti Rihanna, popstar locale e globale, proclamata per l’occasione “eroe nazionale” di Barbados.

L’impero perdeva un altro pezzo. Forse piccolo, forse solo la tessera di un puzzle considerando i numeri, gli orizzonti e i fusi orari del regno di Elisabetta II: in 70 anni – è stata sul trono 25.782 giorni – ha viaggiato in 120 Paesi, compiendo almeno 270 visite ufficiali. Eppure quella sera, peraltro in tempi di Brexit, con la pretesa britannica all’autosufficienza globale, la decisione di Barbados aveva un significato e un peso. Carlo, il principe di Galles erede al trono, che il 30 novembre era a Bridgetown, aveva ricordato le “terribili atrocità della schiavitù” sottolineando che avrebbero “per sempre macchiato” la storia britannica. Dall’occupazione nel 1627, le Barbados erano state una delle prime colonie dell’impero, dove lavoratori afrodiscendenti erano stati sfruttati come schiavi per oltre due secoli nelle piantagioni di canna da zucchero.


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Di addii a Elisabetta II ce n’erano stati altri. Nel 1992 a scegliere la repubblica era stata Mauritius, un’isola africana dell’Oceano Indiano che pure aveva conosciuto secoli di sfruttamento e saccheggi. Elisabetta II era stata in visita anche lì, dal 24 al 26 marzo 1976, quando nel sud del mondo bruciavano le ferite dell’apartheid, dalla Rhodesia razzista, della quale era stata pure sovrana, al Sudafrica segregazionista, sostenuto politicamente anche da Londra. Tempo dopo quei tre giorni, era ormai il 1975, nella capitale mauriziana Port Louis cominciavano proteste studentesche che nel nome della giustizia, delle pari opportunità e della dignità dei popoli non risparmiarono la corona britannica. Per l’arrivo della regina nell’isola, però, c’era stata attesa. A riceverla era stato Sir Seewoosagur Ramgoolam, primo ministro divenuto nel 1968 padre dell’indipendenza. Uno dei quotidiani locali, il Mauritian Times, aveva raccontato che nonostante le preoccupazioni per la sicurezza, Elisabetta II aveva viaggiato in un’automobile scoperta. “Ovunque è andata”, scrisse il giornale, “ha ricevuto un caldo benvenuto e tante acclamazioni ‘Vive la reine’, ‘evviva la regina’”.

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