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Medio Oriente, nel campo profughi senz’acqua c’è chi resiste facendo teatro

La testimonainza di Abdelfattah Abusrour, professore universitario e attivista palestinese, fondatore dell'organizzazione non governativa Alrowwad

Pubblicato:08-03-2023 10:26
Ultimo aggiornamento:08-03-2023 20:23

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AIDA (Cisgiordania) – Bidoni bianchi, di alluminio che brillano al sole o ricoperti di plastica nera sono in fila sui tetti. “Container per l’acqua” spiega Abdelfattah Abusrour, professore universitario e attivista palestinese, fondatore dell’organizzazione non governativa Alrowwad. Siamo nel campo profughi di Aida, in Cisgiordania. Oltre la collina s’intravede Betlemme, dove ha sede l’università; più vicino incombe il muro costruito da Israele per separare il campo da Gerusalemme e da altre aree occupate durante la guerra del 1967 dove pure vivono comunità palestinesi.

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Soffia un vento di primavera. Abusrour indica i bidoni dal tetto di un palazzo di cinque piani. Il campo profughi non è infatti una tendopoli ma una città vera e propria: la costruzione cominciò nel 1950, due anni dopo la “Nakba”, la “catastrofe”, conseguenza di un conflitto arabo-israeliano che costrinse oltre 700mila palestinesi a lasciare terre e villaggi. Dovettero andarsene anche il padre e la madre di Abusrour.


Quest’uomo dalla corporatura robusta che ci parla di acqua è nato ad Aida ma ha potuto vedere l’altro lato del muro: dopo la laurea in biologia a Parigi però è tornato e ha fondato Alrowwad, “pionieri” in lingua araba, un’organizzazione che immagina il teatro e la cultura come una forma di resistenza all’occupazione, capace di trasformare la frustrazione dei giovani in forza creativa e nonviolenta. Gli artisti e gli attori di Aida hanno portato spettacoli anche all’estero e in Europa. Nei loro disegni e nei loro sogni, però, l’acqua resta un bene prezioso.

“La maggior parte delle falde della Cisgiordania occupata è sotto il controllo della società israeliana Mekorot” spiega Abusrour. “Per questo ai palestinesi l’acqua è venduta a un prezzo quattro volte superiore rispetto a quello che viene fatto pagare agli israeliani”. Nei campi profughi della Cisgiordania, oltre 50 quelli censiti dalle Nazioni Unite, la disponibilità è ancora più ridotta. Lo denuncia anche l’ong locale Al Haq, secondo la quale Mekorot viola il “diritto umanitario internazionale”, negando alle comunità la “sovranità sulle proprie risorse naturali”. Secondo uno studio dell’organizzazione specializzata Palestinian Hydrology Group, in media in Cisgiordania i palestinesi consumano 70 litri di acqua al giorno, mentre i coloni israeliani 800.

Abusrour sottolinea che ad Aida la disoccupazione è oltre il 60 per cento e poi torna a indicare i bidoni sui tetti. “Le forniture d’acqua arrivano una o due volte al mese e d’estate l’attesa può durare anche sei settimane” dice. “A volte dobbiamo comprare container mobili a un prezzo dieci volte superiore, pagando una società palestinese che l’acquista dagli israeliani”.

Sopra uno degli ingressi al campo c’è una grande chiave di ferro, lunga quattro o cinque metri. I palestinesi di Aida sperano di tornare a casa prima o poi e di girarla nella serratura.

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