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Cospe Onlus: “Il linguaggio scorretto rende invisibili”

ROMA - "La madre di Mohammed, così mi hanno sempre chiamato tutti". Il racconto di Shams Mohamed comincia con la

Pubblicato:08-01-2019 12:21
Ultimo aggiornamento:08-01-2019 12:21
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ROMA – “La madre di Mohammed, così mi hanno sempre chiamato tutti”. Il racconto di Shams Mohamed comincia con la riscoperta del proprio nome: “Il primo giorno di corso l’insegnante mi ha chiesto come mi chiamavo e io mi sono accorta di essermene dimenticata: da piccola mi chiamavano ‘tesoro’, ‘ragazza’, e poi ‘signora’ e poi sono diventata per tutti la ‘madre di Mohammed’ nessuno mi ha mai chiamata con il mio vero nome“.

Shams Mohamed ha 36 anni e vive a El Desamy, comunità rurale dell’Egitto e ha recentemente iniziato a frequentare un corso di alfabetizzazione al Centro donne del villaggio. Ha scoperto così di non essere esistita fino a quel momento. Non come persona: accanto al suo nome, come accade in molte lingue e in molte culture, c’è sempre il nome del figlio o del marito.

Prima di essere ‘cosa’ che appartiene alla parte maschile della famiglia era comunque anonima: dal vezzeggiativo “tesoro” a un generico appellativo di genere come ragazza o signora. Si tratta di una di quelle che la linguista Alma Sabatini nei suoi studi già a fine anni ’80 definiva “dissimmetrie semantiche“, che ritroviamo sia in molti dei paesi in cui lavoriamo sia in Italia: capita spesso anche qui di sentire appellare una donna attraverso l’uomo o la professione, ad esempio “il professore Baldini e signora” oppure essere appellate in terza persona anche se presenti: “E’ brava la tua segretaria?” sempre un uomo rivolgendosi a un altro uomo. Inizia così il contributo ‘Il linguaggio (corretto) rende visibili‘ sul tema del linguaggio e del genere di Debora Angeli, responsabile tematica “Donne e democrazia” per COSPE onlus, membro del Comitato DireDonne.


Esistono poi le cosiddette ‘dissimmetrie grammaticali‘ ad esempio l’utilizzo di ‘uomo’ con valore generico es. rapporto uomo-macchina, la concordanza plurale al maschile o anche l’uso del maschile per i titoli professionali e ruoli istituzionali prestigiosi, es. ‘il ministro Fornero si è recato in aul'”, mentre l’uso del suffisso -essa ad esempio va bene per ‘la presidentessa dell’associazione Iride’. Come se- continua l’articolo- ci fossero declinazioni di serie a e di serie b. Fateci caso, perché non ci facciamo più caso, le donne nascono anche “collocate” in una lingua, continuando a perpetrare un modello linguistico sessista: un principio sicuramente ‘androcentrico’ ha infatti regolato per secoli ogni lingua e per secoli l’uomo è stato il parametro intorno a cui si è organizzato l’universo linguistico. L’uomo la norma, la donna portatrice di una differenza dalla norma.

Eppure è così, anche così, che le donne diventano invisibili nella vita e nel discorso pubblico e se a Desamy il percorso di riscatto di Shams Mohamed, attraverso il recupero del nome, ci sembra legittimo, non altrettanto legittimo viene percepito un lavoro sulla lingua (e la cultura) italiana da questo punto vista.

E mentre in molti paesi europei si sono fatti passi in avanti, in Italia- spiega ancora nell’articolo sul linguaggio Debora Angeli, responsabile tematica ‘Donne e democrazia’ per COSPE onlus, membro del Comitato DireDonne. Si fa ancora molta fatica anche solo ad utilizzare il femminile di termini come sindaco, magistrato, architetto. Impera poi nel linguaggio anche di persone che ricoprono ruoli pubblici detti e modi di dire sessisti che svalorizzano e umiliano le donne, per non parlare poi dei media che rappresentano spesso le donne come oggetti sessuali o solo il loro ruolo di cura. Il video ‘Il corpo delle donne’ di Lorella Zanardo del 2009- prosegue ancora l’articolo- ci ha raccontato molto di tutto questo e ci ha fatto vedere quanto è profondo il sessismo nei media. Tutto questo è molto collegato e ci dimostra come il linguaggio crei visioni simboliche e crei la realtà e il nostro modo di essere. Ha ripreso la lezione critica di Sabatini, Cecilia Robustelli che nelle ‘Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio istituzionale’ ripercorre la via italiana alla riflessione sul modo di rappresentare le donne attraverso il linguaggio e ricorda come in un primo momento questa discussione, molto sentita dal movimento femminista sia rimasta impantanata nell’omologazione con il linguaggio maschile: per le donne che raggiungevano posizioni professionali o occupavano ruoli istituzionali di prestigio essere incluse nel mondo linguistico maschile e sentirsi chiamare direttore, architetto, consigliere o chirurgo rappresentava una prova della tanto sospirata parità.

Poi intorno al 2000 è arrivato, dagli Stati Uniti, il concetto di gender e l’idea che per ottenere la parità di diritti fra uomini e donne non era più necessario cancellare le differenze tra uomo e donna e rendere la donna uguale all’uomo ma, al contrario, si chiedeva di riconoscere le differenze di genere e di impegnarsi per la costruzione dell’identità di genere.

Al linguaggio fu riconosciuto subito un ruolo potente in questo processo: era anzitutto necessario cominciare ad affermare la presenza delle donne attraverso un uso della lingua che le rendesse visibili per poter poi riconoscere le differenze di genere.

Abitudini linguistiche- sottolinea l’articolo di Debora Angeli, responsabile tematica ‘Donne e democrazia’ per COSPE onlus, membro del Comitato DireDonne- alle quali non era stato mai dato grande peso, come l’uso di termini maschili in riferimento alle donne o di stereotipi negativi, si caricarono quindi di un significato sessista: le donne dovevano essere riconosciute attraverso l’uso del genere femminile. E’ un passaggio importante, perché ‘le parole sono importanti’ ed è chiaro che la lingua può creare realtà ed essere un potente motore di cambiamento. Questo cambiamento ci viene richiesto dalle norme di legge, dalle donne che non si vedono rappresentate dal linguaggio in uso e dalle bambine che sentono di essere presenti nel mondo e nella società al pari dei bambini e che devono poter continuare a sentirsi così- conclude l’articolo- anche una volta diventate donne. E per non perdere il proprio nome come ha fatto Shams.

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