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Usa, Alegi (storico): “Al voto anche un’America in rovina, non raccontata”

Il professore di storia delle Americhe fa il punto sul malessere delle aree depresse non metropolitane, dove si annida il capitale politico di Trump

Pubblicato:07-11-2016 15:24
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:16

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G. AlegiROMA  – “C’è una dimensione profonda, numericamente non decisiva ma culturalmente solida, che i mezzi di informazione con le loro redazioni a New York non hanno capito”: comincia da qui Gregory Alegi, professore di storia delle Americhe alla Luiss Guido Carli, una vita di studi tra l’Italia e gli Stati Uniti.

La prima domanda della DIRE è su ciò che di questa campagna elettorale per la Casa Bianca è stato raccontato poco o comunque non abbastanza. “Il primo aspetto è legato all’incredulità rispetto alla possibilità di una vittoria di Donald Trump” risponde Alegi.

Convinto che per capire sia necessario andare al di là di New York e magari anche della Chicago di Barack Obama.


Ricorda un viaggio recente, in automobile, dalla metropoli della East Coast all’Ohio: “Le aree industriali cadute in rovina si susseguono una dopo l’altra, segnate da un malessere che adesso Trump trasforma in capitale politico“.

L’Ohio allora, ma anche la Pennsylvania interna o il Michigan, Usa non metropolitani e profondi, restati a lungo fuori dai radar dei mezzi di informazione. “E’ come se prima della Brexit ci si fosse affidati ai racconti degli amici di Londra” dice Alegi; “O si scegliesse un campione empirico, magari ‘la gente che frequento’, invece di fondarsi su un campione statistico ben costruito“.

Nel corso dell’intervista ritorna un’espressione, “rappresentazione incompleta”. Il riferimento è alle dinamiche “profonde e culturali” che investono gli Stati che sulle mappe geopolitiche di questi giorni sono “rossi”, cioè favorevoli a Trump. Sul candidato repubblicano, e la sua propaganda, il giudizio è differente. Le accuse al “rigged system”, il sistema truccato, non stanno in piedi, sottolinea Alegi: “Sono poco plausibili in bocca a un candidato che arriva in finale per i repubblicani dopo essere stato fino a pochi anni fa amico dei Clinton e iscritto al Partito democratico”. Chi aveva un sistema contro era semmai Bernie Sanders, nota il professore, invitando a fare i conti.

I “superdelegati” scelti dalle gerarchie dei democratici hanno assegnato a Hillary Clinton 570 delegati e appena 44 al suo rivale alle primarie. “Molti”, dice Alegi, “hanno scelto Clinton sapendo che la marea dei delegati della struttura sarebbe stato un ostacolo insormontabile per Sanders“.

Il senatore del Vermont, per altro, avrebbe con Trump “punti di contatto”. Anzitutto, sottolinea Alegi, nel rapporto con “quel malessere profondo” degli Stati ‘rossi’: “Sanders parlava da sinistra, ad esempio sull’istruzione universitaria gratuita, ma poi sulla protezione dei lavoratori americani le sue parole d’ordine hanno un sostrato populista che non è né di destra né di sinistra“.

Un mondo lontano dalla Clinton, estranea al modello della sinistra europea, per altro mai davvero parte della storia americana. “Ci sono solo due eccezioni, connotate dall’intervento massiccio dello Stato in economia” spiega Alegi: “Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la nuova frontiera kennediana, attuata poi da Lyndon Johnson”. E la Clinton allora, accusata di essere la candidata di multinazionali e speculatori, da che parte sta? Il professore cita l’abolizione del Glass-Steagall Act, introdotto nel 1933 proprio da Roosevelt per contrastare la Grande crisi: “La legge che separava in modo netto le attività speculative e ordinarie delle banche è stata smantellata durante la presidenza di Bill Clinton, esattamente dieci anni prima del fallimento di Lehman Brothers”.

di Vincenzo Giardina, giornalista

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