ROMA – Alla vigilia del secondo anniversario dagli eccidi del 7 ottobre 2023, si sono aperti ieri a Sharm el-Sheikh, in Egitto, i colloqui indiretti tra rappresentanti di Israele e Hamas per discutere il piano in 20 punti con cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump spera di riportare a casa i 48 ostaggi israeliani e stabilizzare la Striscia di Gaza. Al momento non sono trapelati dettagli, mentre il principale ostacolo sembra l’attuazione del punto che prevede, da un lato, il disarmo del gruppo palestinese e, dall’altro, l’uscita completa dei militari israeliani dalla Striscia. Trump si è detto però certo che “la prima fase dei negoziati sarà completata entro questa settimana”
Intanto, mentre a Gaza si contano già sette feriti dall’alba nonostante la tregua che accompagna i negoziati, in Israele si ricorda quel mattino del 7 ottobre 2023: quel giorno, intorno alle 6.30, il Movimento per la liberazione della Palestina (Hamas, in arabo) avviava, tramite i suoi affiliati, una serie di attacchi contro villaggi e kibbutz nelle regioni meridionali di Israele, compreso il festival di Musica ‘Nova’, che aveva portato centinaia di ragazzi da tutto il mondo a pochi chilometri dalla barriera con la Striscia di Gaza. L’aggressione – la prima in territorio israeliano dal 1948 – provocò circa 1.200 vittime, di cui due terzi civili. I miliziani, giunti a bordo di camionette, moto e alianti, catturarono e portarono a Gaza 250 tra cittadini israeliani e stranieri. Immediata la reazione delle autorità di Tel Aviv che, parlando di “11 settembre di Israele”, il giorno successivo proclamò lo stato di guerra e annunciò l’intenzione di prendere militarmente il controllo dell’enclave.
L’azione di Hamas giunse dopo decenni di conflitto, che nella Striscia di Gaza è significato anche un blocco sui confini terrestri, aerei e marittimi dal 2009. Più di recente, i quotidiani ricordano le tre settimane di violenze che, prima del 7 ottobre, avevano provocato quasi 250 morti tra i palestinesi e 32 tra gli israeliani, spingendo Qatar ed Egitto a mediare una tregua, il 29 settembre, tra Hamas e Israele. Si tratta degli stessi Paesi che dal lancio dell’operazione militare israeliana su larga scala non hanno smesso di ricercare una soluzione politica, insieme agli Stati Uniti di Joe Biden prima, e di Donald Trump poi.
La Casa Bianca, insieme alle principali nazioni dell’Unione europea, è rimasta ferma nel continuare a fornire appoggio militare e politico allo Stato ebraico, sostenendo la rivendicazione di Tel Aviv di “difendersi” e “eradicare una volta per tutte i gruppi terroristi” che ne minaccerebbero l’esistenza.
Ma l’efferatezza delle azioni dell’Idf – che da subito non ha risparmiato attacchi a centri abitati, infrastrutture civili, campi profughi, ospedali o ‘safe zone’ – a cui si somma il blocco totale all’ingresso di aiuti umanitari, ha spinto molti ad accusare Tel Aviv di genocidio, fino alla denuncia presentata l’8 gennaio 2024 dal Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia, per violazione della convenzione sul genocidio. Quel procedimento è ancora in corso ma nei mesi ha portato a diverse misure provvisorie che, valutando la “plausibilità” della commissione di atti genocidari, ordinavano a Israele di prevenire e porre fine alle sofferenze dei civili. Richieste disattese, che dopo dieci mesi hanno spinto il secondo tribunale dell’Onu – la Corte penale internazionale – a emettere mandati di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità sia a quattro vertici di Hamas, che contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant.
Un’azione che è servita soltanto all’istituzione ad attirarsi due pacchetti di sanzioni da parte degli Stati Uniti, che con Israele hanno accusato la Cpi di mosse “politicizzate” e “antisemite”.
Così, alla luce dei 24 mesi appena trascorsi, ben poco è cambiato. Si osserva un ripetersi di azioni che non arrivano a produrre effetti – proposte di cessate il fuoco al Consiglio di sicurezza dell’Onu, bloccate dal veto di Stati Uniti e Regno Unito; appelli del mondo umanitario all’apertura dei canali per gli aiuti, inascoltati; negoziati di pace a Doha inefficaci, ad eccezione di parziali rilasci e di due brevi tregue.
A cambiare senza sosta è, invece, la vita dei palestinesi: ad oggi sono oltre 67mila le vittime confermate (ma ci sono studi che, prendendo in esame dati dell’esercito o altre proiezioni, ipotizzano cifre che arrivano anche a 150mila o addirittura 650mila morti), di cui i due terzi donne e bambini, con l’aspettativa di vita “dimezzata” secondo la rivista scientifica Lancet, da 75,5 anni a 40,5. I feriti sono quasi 180mila, determinando “il maggior numero di bambini amputati per abitante al mondo”, come ha avvertito l’Onu. A ciò si aggiunge il collasso di ogni settore di Gaza – sanitario, educativo, economico – con oltre l’80% delle case, delle strade e dei campi coltivabili distrutti o danneggiati, mentre non c’è ospedale o università che non abbia subito attacchi. Le frontiere continuano a rimanere di fatto chiuse all’ingresso di aiuti umanitari. Oltre 250 gli operatori dei media uccisi. Incerta resta anche la situazione degli ostaggi israeliani, per i quali le famiglie continuano a chiedere giustizia, con proteste che hanno raggiunto anche il cortile di casa del premier Netanyahu.
Continuando invece a rivendicare la necessità di colpire Hamas, a fine maggio Israele, col sostegno degli Stati Uniti, ha sostituito il meccanismo di distribuzione degli aiuti, un tempo gestito dall’Onu e dalle organizzazioni non governative, con un consorzio privato, così da tagliare canali di rifornimento al gruppo palestinese. Una mossa che ha finito per accelerare la grave carestia e le morti anche per fame, a cui si aggiungono denunce di raid dell’Idf diretti contro coloro che si mettono in fila per gli aiuti, come riportato dai media internazionali anche stamani.
Una tragedia di proporzioni immani, dunque, che ha causato morti anche in Iran, Libano, Yemen, Siria e persino in Qatar, mediatore nella crisi. L’effetto di tutto questo: un certo risveglio della società civile mondiale, con milioni di persone scese in piazza per chiedere la pace, la fine dell’occupazione della Palestina e dell’impunità di Israele, fino a viaggi di attivisti non violenti, per terra e per mare, per rompere l’assedio.
Al Cairo, intanto, si lavora per tracciare un futuro anche politico, con la proposta di un governo tecnico composto da palestinesi sotto il monitoraggio dei Paesi arabi, e un piano per la ricostruzione ideato da Trump, a cui saranno chiamati a partecipare investitori internazionali. Da questa proposta però, osservano alcuni analisti, restano escluse la Cisgiordania e Gerusalemme Est, parti essenziali di quello Stato di Palestina riconosciuto dall’Assemblea generale dell’Onu e fine settembre.







