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Nel Lazio il 5% dei pazienti con tumore muore al Pronto soccorso

La percentuale sale quasi al 30% in una Asl come quella di Civitavecchia

Pubblicato:07-10-2016 12:47
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:09

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Pronto_SoccorsoROMA  – “Nel Lazio circa il 5% dei pazienti con tumore muore al Pronto soccorso (Ps), una percentuale che sale quasi al 30% in una Asl come quella di Civitavecchia. Questo perché molti pazienti sono in fase terminale e obiettivamente, oltre al dolore, i familiari non sanno dove andare. L’unico posto sempre aperto è il Ps. Non significa che i medici di medicina generale non collaborino, c’è anche Antea onlus (assistenza gratuita a domicilio ai pazienti in fase avanzata di malattia) che lavora benissimo, ma gli hospice sono pochi. Nella Asl di Civitavecchia non c’è nemmeno un hospice e infine mancano le informazioni”. Risponde così Rosanna Cerbo, neurologo, psichiatra, esponente della Commissione dolore dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Roma (Omceo), intervistata dall’agenzia di stampa DIRE.

“In questi giorni sto lanciando un’iniziativa- fa sapere la docente de La Sapienza- proprio con il San Camillo e la Asl di Civitavecchia su un progetto che si chiama ‘Delfino‘. Prevede che una persona, dal momento in cui riceve la diagnosi di tumore, sia accompagnata in tutti i percorsi sociali, psicologici e medici. Anche gli stessi parenti devono essere informati, perché spesso portano il proprio caro quando non mangia più o non respira più, e a quel punto gli spazi per intervenire sono pochi. Quindi, in primis bisogna organizzare meglio le poche strutture che esistono- consiglia il medico- in secondo luogo dobbiamo offrire una maggiore informazione ai pazienti e, infine, anche i familiari si devono fare sentire. Stiamo lavoriamo bene sulla prevenzione dei tumori, ma manca completamente la parte relativa alla malattia avanzata. Gli aspetti bioetici sono enormi- continua Cerbo- quasi nessuno conosce la differenza tra accanimento terapeutico, eutanasia, suicidio assistito e sedazione profonda. Sta tornando l’eutanasia, ma se si toglie a un paziente il dolore e lo si seda, non c’è più bisogno di fare l’eutanasia, in quanto gli allunghiamo la vita di massimo 10-15 giorni. Senza il farmaco morirà”.

Oltre alla Rete della terapia del dolore oncologico e delle cure palliative “esiste un cratere che riguarda l’applicazione della Legge 38 sul dolore benigno– aggiunge il neurologo- che rappresenta il 90% dei casi (ad esempio le artrosi e le neuropatie diabetiche). In questo ambito stiamo messi ancora peggio”.


La Regione Lazio “formalmente ha messo in atto tutto- chiarisce l’esponente dell’Omceo Roma- è stato fatto un piano in cui ho partecipato e sono stati individuati gli hub e gli spoke (centri di riferimento). Gli atti amministrativi regionali che riguardano la Rete del dolore sono di esempio per tutta Italia, e quindi la Regione non può essere accusata di non aver stabilito quali siano i criteri e quanti centri di terapia del dolore debbano esserci per ogni centinaia di pazienti. Il problema è che è tutto sulla carta. Manca il controllo da parte della Regione- spiega Cerbo- molti direttori generali preferiscono tenersi i neurologi e gli anestesisti per le camere operatorie e altro, ma la terapia del dolore è ancora considerata la cenerentola“.

Anche gli spoke “sono stati individuati sulla carta- ripete- nella pratica non c’è niente. In aggiunta, accanto a questa mancata funzione di controllo ci devono essere delle sanzioni. Se un direttore generale al quale è stato dato l’incarico di fare uno spoke non dà le risorse necessarie e, soprattutto, non lo organizza, quello non sarà uno spoke. Sono stati individuati i nodi della Rete- precisa- ma non esistono i fili che li collegano alla rete”.

Mentre una Rete delle cure palliative in Italia già esisteva da tempo, “la vera novità della Legge 38 è stata quella di distinguere per la prima volta la terapie del dolore oncologico e le cure palliative dalla cura del dolore cronico (ovvero benigno, perché non accompagnato ad una malattia mortale). Avere un dolore cronico per 30 anni non significa stare bene“, chiosa Rosanna Cerbo, esponente della Commissione dolore dell’Omceo Roma. “È una legge molto avanzata, il piccolo particolare è che è molto poco applicata. A questo punto preferisco un Paese come la Finlandia- afferma l’esperta- dove non c’è alcuna legge ma i pazienti vengono curati”.

Dunque, in sintesi, i punti critici da affrontare su questo tema sono molteplici secondo Cerbo: “La questione della Rete del dolore benigno è che formalmente la Regione Lazio ha fatto tutti gli atti ma manca il controllo e forse anche le sanzioni. Per quanto riguarda la Rete delle terapie del dolore oncologico e le cure palliative mancano ancora gli hospice: mancano quelli pediatrici (ce ne sono un paio in tutto il Lazio), mancano quelli geriatrici (non esistono proprio in Italia), manca tutta l’assistenza domiciliare. Dovrebbero essere realizzati dei Day hospital- continua la studiosa- io propongo dei sviluppare dei centri a porte aperte, non l’hospice dove si è sicuri di entrare e di non uscire più perché per definizione non si possono avere più di tre mesi di vita. Bisognerebbe creare delle strutture dove andare quando si sta male per poi tornare a casa. Parlo di strutture che costano poco, non serve la Cardiochirurgia o la Neurochirurgia. Inoltre c’è una mancata informazione, i parenti devono sapere che non possono rivolgersi alle strutture pubbliche, come i Pronto soccorso, negli ultimi giorni di vita. Purtroppo a loro nessuno dice nulla. Dobbiamo accrescere la cultura delle persone”.

Eccellenze, parlando di hospice, esistono nel Lazio: “Il Bambino Gesù, il Gemelli, l’Ifo, l’Oncologia del Policlinico funzionano benissimo. Anche la Peter Pan funziona bene. Quello che occorre è il collegamento tra i reparti oncologici, perché c’è tutta una serie di problematiche che vanno affrontate dal territorio. Questa integrazione ospedale-territorio- conclude Cerbo- non esiste”.

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