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Comoda, non comodissima la panchina per la libertà di stampa

Cos'ha da dire questo simbolo ad un mestiere che si fonda sull'andare a vedere? E cosa fa guardare?

Pubblicato:07-05-2021 12:22
Ultimo aggiornamento:07-05-2021 12:46

panchina libertà di stampa bologna
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BOLOGNA – A Bologna da alcuni giorni c’è una panchina dedicata alla libertà di stampa: che tipo di simbolo è? Soprattutto per un mestiere che, di solito, si racconta e rappresenta per la sua capacità di consumare le suole delle scarpe. Su una panchina ci si siede, che messaggio vuol trasmettere oggi, cos’ha da ‘dire’? È nel giardino del complesso di Santa Cristina a Bologna, dove ha sede la Scuola di giornalismo. Come a dire, sta lì a ricordare uno dei ‘fondamentali’. Bene, proviamola. Diceva in fondo James Reston, columnist del Ny Times, che un giornalista deve avere “quel tipo di ‘sensazione’, vedere ma anche sentire quanto accade intorno”. E la panchina fa proprio questo: ferma, fa sedere, per un attimo si ‘stacca’ dal vortice della corsa sfrenata alla notizie che tempestano le giornate, dall’orda di comunicati stampa, dalla ‘dichiarazia’… La panchina fin da subito costringe ad alzare lo sguardo e osservare. Impone di usare la posizione in cui si è per mettere bene a fuoco ciò che si vede. A differenza delle altre che si trovano nello stesso giardino non ha un tavolo per appoggiare un pc o un libro, stare lì offre una libertà (e un dovere) di azione e di scelta che altrove non c’è. Non c’è la mediazione della realtà che ti arriva da internet. Lì si prendono appunti (anche sullo smartphone, eh).

Gli occhi però, inevitabilmente, sono puntati su chi ci si siede: la panchina è bianca (le altre no), spaziosa: c’è posto per uno, ma anche per altri e infatti si è spesso in compagnia nella difesa della lesa libertà di stampa. Ma sulla panchina ci si siedono poi in pochi: tra quei molti ‘difensori’, tanti sono prontissimi a farsi meno presenti quando la libertà che si è esercitata e difesa li tocca (direbbe il Cirano di Guccini).

Panchina comoda, non comodissima: fa po’ impressione sedersi lì, bisogna andarci apposta, volercisi accomodare, altri subito guardano per capire, incuriositi, perché ci sia chi ha scelto proprio quella, quasi a volersi mettere in mostra. Lì, però, si è con le spalle al muro: la panchina per la libertà di stampa dietro di sé ha una vecchia e alta cinta muraria… È più bella delle altre, ma da lì non si scappa facilmente se la prendi sul serio. Ma in fondo qui ci si deve proprio voler venire, non è proprio un posto al centro della città ed è anche abbastanza inusuale. Bisogna cercare il posto ‘giusto’ dove si ‘attua’ la libertà di stampa. E poi, una volta lì, cosa si vede da lì?


La prima cosa che salta agli occhi è un grande lampione che si alza verticale, ma deve piegarsi su se stesso per illuminare bene un punto, una zona, per aiutare a capire bene dove si è e dove si va. Poi alberi verdissimi e studenti, viene da pensare al tema del cambiamento climatico e dei giovani in cerca di un futuro per nulla facile da acchiappare, due temi su cui spesso si fatica far luce, restano in ombra rispetto alle grandi dinamiche della cronaca urgente e d’emergenza. Per loro la libertà di stampa, però, ha senso, valore, urgenza.

Dalla panchina lo sguardo dirige su un punto di passaggio, la scena non è mai statica, si va e si viene, dà l’idea di non restare sempre la stessa: tornando ad un altro orario forse sarebbe tutto diverso. Dunque, si deve stare nel punto giusto e nel momento giusto per cogliere ciò che davvero è essenziale, conta ed è importante, o almeno andarci vicino. È una prova che si rinnova di continuo. E dunque bisogna andarci, starci e guardare cosa si cela dietro la normalità apparente di questo paesaggio, è come gli altri ma occorre sforzarsi di coglierne ciò che merita davvero di essere raccontato ad altri.

Il posto è silenzioso, in una società assordante e dove i social ti inseguono con le loro novità (in cui utile e futile si scavalcano a vicenda), su cui esigono attenzione, qui si sta in ascolto dei particolari, si cerca di cogliere ciò che dicono le persone e di capirlo bene; qui se non vedi bene o non capisci bene quel che osservi devi cambiare posizione, il punto di vista, ri-mettere a fuoco, in luce ciò che non si percepisce ad un primo sguardo; e bisogna investire tempo, serve tempo per farlo. La realtà è lì ma non è subito a portata di mano.

Tempo fa Emilio Cecchi, figura di rilievo del giornalismo italiano, disse che il giornalista è uno che sta “fermo”, Sciascia anni dopo osservò che era una “paradossale prescrizione” per chi fonda la sua professione sull'”andare a vedere”. Cecchi voleva dire che questo non basta da solo. È interessante, in un’epoca in cui si parla di verità e post verità, l’idea della ‘fermezza’ associata alla libertà di stampa e quella panchina allora forse sta lì proprio per richiamare ogni tanto a fermarsi, sedersi e rimettere ordine davanti ad un panorama bello ma confuso. Sarà scontato, sarà retorica, eppure… “per godere della libertà di stampa bisogna che ciascuno possa dire ciò che pensa e, per conservarla, bisogna ancora che ciascuno possa dire ciò che pensa” (Montesquieu).

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