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L’attivista Senghore (Article 19): “Fermiamo l’effetto domino dei golpe in Africa”

La direttrice dell'ong Article 19 per l'Africa occidentale: "Rovesciare un governo eletto vuol dire negare il diritto del popolo a scegliere a chi affidarsi. Ma chi è al potere deve curare l'interesse pubblico"

Pubblicato:07-02-2022 18:26
Ultimo aggiornamento:07-02-2022 18:26

attivista senghore
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ROMA – “C’è un effetto domino pericoloso, con già tre Paesi tornati sotto giunte militari, ed è indispensabile riavviare subito un dibattito sulla qualità dei governi: devono mettere al centro i cittadini”. A parlare con l’agenzia Dire è Fatou Jagne Senghore, direttrice dell’ong Article 19 per l’Africa occidentale.

L’intervista si tiene in collegamento da Dakar, la capitale del Senegal, dopo il golpe in Burkina Faso del 24 gennaio e il tentativo di colpo di Stato in Guinea Bissau della settimana scorsa. Article 19 è un’organizzazione fondata nel 1987, con base e Londra e sedi in più continenti. Si rifà alla Dichiarazione universale dei diritti umani e si batte in particolare per la libertà di espressione. Rispetto ai golpe, non solo quello in Burkina Faso ma anche quelli che lo hanno preceduto in Mali nel 2020 e nel 2021 e poi ancora in Guinea nel settembre scorso, Senghore invita ad allargare l’orizzonte. “Rovesciare un governo eletto vuol dire negare il diritto del popolo a scegliere a chi affidarsi“, denuncia l’attivista. “È un colpo ai diritti umani e in particolare alla libertà di espressione”.

Il ragionamento non si esaurisce però alla condanna dei golpe, che pure sarebbero “un arretramento per tutta l’Africa occidentale dopo che negli anni Novanta erano finiti molti regimi militari ed era cominciata una stagione di cambiamento e di progresso”. Sul tavolo, dopo il vertice dell’Unione Africana del fine-settimana, c’è il nodo delle sanzioni nei confronti delle giunte. Secondo Senghore, la cautela in questi casi è d’obbligo. “Se non sono indirizzate nel modo giusto, le sanzioni rischiano di colpire le popolazioni e soprattutto i ceti vulnerabili“, la sua tesi. “Decisioni come quelle della giunta di Bamako, che ha fissato il 2026 come scadenza per le prossime elezioni, sono inaccettabili: proprio per questo, nell’interesse dei cittadini, bisogna spingere per un dialogo”.


Nel Sahel un fattore chiave è l’insicurezza. L’avanzata di formazioni ribelli ha spinto alla fuga e gettato in una condizione di incertezza milioni di persone. Secondo Senghore, allora, “dei militari del Mali non c’è bisogno al governo ma al fronte”. Il ragionamento vale anche per il Burkina Faso, dove dal 2015 le persone costrette a lasciare le proprie case da violenze di milizie e ribelli, a volte di matrice islamista, sarebbero state circa un milione e mezzo. Fanno parte dell’equazione le responsabilità dei governi eletti. Secondo Senghore, negli ultimi anni “tante persone hanno perso la speranza di cambiamenti pacifici al potere perché chi era stato eletto cercava poi di riscrivere la Costituzione pur di conservarlo“.

Dopo il precedente del Burkina Faso di Blaise Compaoré, in carica per 27 anni prima di essere costretto all’esilio, c’è stato il caso della Guinea di Alpha Condé, arrestato dopo una contestata riforma della carta fondamentale che gli aveva permesso l’ennesima rielezione. Ancora Senghore: “Oggi più che mai ci servono leader che si prendano cura dei cittadini e dell’interesse pubblico; solo patrioti veri ci permetteranno di uscire da questa crisi”.

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