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Con Oumar e i migranti, sotto il portico a Bamako/FOTO

Un reportage dal centro di accoglienza aperto a Bamako da Aracem, l’Association des Refoules d’Afrique Centrale au Mali

Pubblicato:06-07-2017 10:54
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:30

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dal nostro inviato in Mali, Vincenzo Giardina

BAMAKO (Mali) – Ha dormito sul tetto, Fatoumata. Troppa afa, prima delle piogge, per restarsene dentro. Al risveglio fa slalom tra i ferri d’armatura che vengono su dal cemento. Alcuni sono impacchettati in bottiglie di plastica perché i bambini non si facciano male. E di piccoli, giù in cortile, ce ne sono tanti: Oumar, Modibo e poi anche più grandi. Sorridono con le magliette del Barcellona e in mano le ciotole, riso e forse anche “ceebu jen”, pesce e verdura alla senegalese. Sono ospiti di Aracem, l’Association des Refoules d’Afrique Centrale au Mali: un centro di accoglienza a Bamako che vive di piccole donazioni internazionali e soprattutto dell’impegno dei suoi volontari, in prima fila nell’ascolto, nell’assistenza e nel sostegno dei migranti respinti in Nord Africa o invece in marcia nella direzione opposta, pronti a partire.

“Ne possiamo ospitare fino a 50 insieme” spiega alla DIRE Patrice Boukar Zinahad. “Garantiamo cibo e alloggio ma anche assistenza sul piano giuridico e aiuti di carattere psicologico”. Per rendersi conto bisogna superare il terzo ponte sul fiume Niger, quello costruito dai cinesi, 1.627 metri di piloni e cemento a sei corsie. Si arriva a Niamakoro e si entra in un portico affacciato sullo sterrato. Con Fatoumata ci sono Oumar e Abdolulaye, originari di Kayes, la regione occidentale al confine con il Senegal e la Mauritania. Avevano raggiunto Bamako per la prima volta percorrendo in autobus quella che si chiama ormai “la strada della speranza”. Il viaggio era continuato in Burkina Faso e in Niger. Fino all’Algeria, dove però sono stati fermati ed espulsi.


A Bamako la loro storia assomiglia a centinaia di altre. Non è un caso che Aracem sia nata nel 2006: anno di spari ad alzo zero, morti e deportazioni dopo i tentativi dei migranti di forzare le barriere di Ceuta e Melilla, le enclave spagnole in Marocco, in teoria la porta per l’Europa. “Il nostro Presidente Amadou Toumani Touré diceva che il Mali voleva aiutare tutti i fratelli africani” spiega Zinahad. “Accettò di accogliere pure i migranti espulsi originari di altri Paesi, con un’altra cultura e nessun parente a Bamako”. Aracem, con l’Africa centrale nel nome, è nata così. Poi ci sono state altre emergenze e, dal 2012, il conflitto nel nord del Mali.

Abbiamo aiutato a fuggire e ospitato a Bamako 119 persone originarie di Kidal e Gao, le città occupate dalle milizie islamiste” spiega Zinahad. Impegnato, con agli amici dell’ong Maison des migrants, nel favorire il ritorno a casa degli sfollati non appena la situazione lo ha consentito. Molti di loro sono ripartiti dalla stazione di Niamakoro, che sta proprio accanto alla sede di Aracem. Adesso ci sono due ragazzi che lavano i vetri di un pullman, scherzando con spazzoloni e sapone. I passeggeri non sono ancora arrivati. Alcuni sono sotto il portico di Aracem, e si informano su come potrebbe essere il viaggio. “Il nostro compito è spiegarglielo, fargli capire cosa significa attraversare il deserto e rischiare la vita in mare” spiega Mamadou, uno degli operatori. Con lo sguardo cerca una giovane madre che sonnecchia su una branda. “Se lo avessero saputo”, spiega, “molti non sarebbero partiti”.

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