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Il tumore al seno (e la vita) negli scatti di Federica, al via la mostra a Roma

La fotografa 34enne racconta il suo percorso nell'esposizione fotografica 'Buon vento exhibstory'

Pubblicato:06-05-2022 17:58
Ultimo aggiornamento:06-05-2022 19:10

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ROMA – Si chiama ‘Buon vento exhibstory’, un titolo che “non torna con il tumore al seno”, ma porta con sé l’idea di viaggio, di aria e respiro. Perché “in mezzo alla malattia, c’è la vita”. Quella di Federica Anna Molfese, artista romana di 34 anni che ha deciso di raccontare il suo percorso attraverso la fotografia. Il suo lavoro sarà in mostra da domani 7 maggio (alle 18 l’inaugurazione) a venerdì 13 maggio negli spazi di Rione Roma, in via dell’Arco di Parma 18 (visita su prenotazione a rioneroma@gmail.com o chiamando l’artista al 3387043943). Ecco l’intervista che Federica ha rilasciato all’agenzia Dire a poche ore dall’inaugurazione dell’esposizione.

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Come nasce l’idea di questa mostra?
Nasce con l’inizio di questa mia avventura con il tumore al seno. Nel 2015, a 27 anni, ho scoperto di avere un tumore al seno e di dover fare una mastectomia e lo svuotamento del cavo ascellare. All’operazione sono seguite la chemioterapia e la radioterapia. Subito dopo, mia madre ha dovuto iniziare lo stesso percorso. È stata una valanga e ho capito subito che sarebbe cambiato tutto. E allora ho iniziato a scattare. Mi sono formata alla Scuola romana di fotografia, ma ho sempre fatto streetart, mai nudi o autoritratti. Non avevo la predilezione per il corpo, ma mi è venuto spontaneo conoscere la cicatrice della mastectomia con la macchinetta fotografica.


È stata quella la prima fotografia legata al tumore?
No, prima dell’intervento ho fotografato il mio seno. È stato un modo per prendere consapevolezza. Da lì è nato questo progetto e ho deciso di fare una mostra sul tumore al seno. Ho iniziato a sfruttare tutto quello che accadeva, tutti i cambiamenti del mio corpo, che sono stati tantissimi e sono avvenuti relativamente in poco tempo, perché tra la scoperta del tumore e l’operazione non era passato nemmeno un mese. All’inizio per me era un percorso fotografico che volevo forse in pellicola e quel primo nucleo contiene fotografie molto crude. Non c’era tempo per avere filtri. Successivamente ho iniziato a usare anche digitale e i colori. La prima sezione della mostra rappresenta questo momento attraverso 25 scatti tutti in bianco e nero, tranne gli ultimi sei che sono a colori, perché raccontano una evoluzione.

Puoi raccontarla?
Dopo l’operazione e la fine delle cure, pensavo che questo tema un po’ mi lasciasse, ma non è stato così. Non mi ha lasciato nemmeno per un secondo: nel 2017 ho scoperto di avere delle metastasi e tuttora sto facendo la chemio. In quel momento, anche se la volontà di fare questa mostra era molto forte, mi sono data un po’ di tempo. Poi però è arrivata la seconda parte, che alla mostra rappresenta una intera sezione. Si tratta di una videoinstallazione composta da 394 fotografie che sono state scattate nel giro di un anno e mezzo. Lì c’è tutto, dalle volte che sono andata a fare la chemioterapia a quando ho riprovato per la prima volta un reggiseno, oltre a tutti i cambiamenti dei miei capelli. L’idea che voglio trasmettere è che sì, è vero, c’è una malattia, ci sono le cure, ma in mezzo c’è una vita. Mi rendevo conto che lo stereotipo del malato di cancro che io stessa avevo non corrispondeva con quello che vivevo io, perché la chemioterapia non è più quella che ci fanno vedere nei film, la malattia non è più qualcosa da nascondere, non è qualcosa che ci costringe a non fare più niente.

Le foto contenute nell’installazione scorrono molto velocemente, molti sono autoscatti, quasi selfie. Sono il risultato di quei miei momenti in cui pensavo ‘ok, sto cambiando di nuovo, immortaliamo questo momento perché magari non ho più la ‘boccia’, ma la cresta oppure le trecce. La struttura va avanti e indietro e si ferma su alcune foto proprio perchè l’idea è quella del limbo, di non sapere dove ti trovi, a che punto sei. Me ne sono successe tante, sei cambiata tante volte, però effettivamente dove sei non lo sai. L’obiettivo è riuscire a far fermare le persone lì davanti, perché adesso non ci fermiamo per niente e per nessuno. Dove sono? Dove mi trovo in questo percorso? Perché dopo tanto che stai in mezzo alle cure e alle terapie, ti perdi.

C’è anche una terza sezione della mostra. Qual è?
La terza parte è narrativa, sono scritti che dal nulla mi sono trovata a buttare giù nei momenti più diversi. Dando sfogo alla parte più fragile, ai dubbi, agli interrogativi che vengono facendo questo percorso. Sono abbastanza recenti e in mostra saranno allestiti insieme a una piccola cassettiera che contiene tutte le lettere dell’alfabeto. Chi vuole può scrivere una parola che ritiene importante in un percorso del genere. Io mi sono trovata a voler condividere quello che avevo capito scrivendo un po’ di parole ‘random’. Ma non c’è pesantezza, mai. Parlo per esempio dell’endometrio in maniera molto informale, oppure scrivo ‘Fai respirare il tuo corpo’ perché per me è importante provare a considerare l’idea di non dover nascondere la cicatrice, che è una parte del tuo corpo. Così come la parrucca, va bene se la metti, ma va bene anche toglierla e far respirare la tua pelle.

Qual è l’idea dietro a questo lavoro narrativo?
Creare una sorta di dizionario autoironico, senza la pesantezza delle informazioni che vengono date. Una delle prime frasi che ho scritto è ‘Vaffanculo cancro’. È stato un mio modo per dare sfogo a questo mondo che si è aperto nella mia vita all’improvviso. La stessa sensazione che hai quando ti lascia un ragazzo: tutte le informazioni che hai su di lui, per esempio che gli piace dormire a destra o che gli piacciono le noccioline, ma non gli spinaci. Tutte quelle cose che fanno parte di una relazione amorosa, che ci faccio di quel materiale? Non è che posso consegnarlo alla sua prossima ragazza, ma è un bagaglio che posso tenere come mia esperienza. Questa sezione narrativa rappresenta questo bagaglio che voglio condividere con tutte le persone che hanno fatto o stanno facendo il mio stesso percorso e con chi è vicino a loro.

Dopo questa mostra, che accompagna la maratona Race for the cure, il progetto fotografico andrà avanti?
Dopo sei anni, questo percorso fotografico lo considero chiuso, ma soprattutto lo considero una vittoria. È stato il mio modo per dire ‘va bene, ho vissuto questo, lo sto vivendo e lo vivrò ancora, ma io l’ho vinto, punto’. Nonostante non ci sia il concetto di guarigione, c’è quello di vittoria. Mi è venuto spontaneo trasformarlo in fotografia, così come in questo momento sono spontaneamente passata alla pittura e alla scultura, che per me oggi rappresentano un modo meno duro, meno diretto, per raccontarmi e raccontare il mondo

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