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FOTO| VIDEO | Al Mont Carmel un altro ritorno è possibile

Come ricominciare dopo la guerra? "La strada della formazione e del lavoro è un antidoto più efficace di tutti gli accordi di pace che si potranno mai firmare"

Pubblicato:06-03-2019 10:52
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 14:11

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BANGUI (Repubblica Centrafricana) –  “All’università studiavamo gli uni accanto agli altri” dice Khididiatou Yunusa, 24 anni, in piedi accanto a caschi di datteri rossi. È musulmana e vive al Pk5, il quartiere islamico che l’ultima fiammata del conflitto civile a Bangui ha trasformato in un ghetto. Che Khididiatou oggi si trovi qui, nella missione cattolica di Notre Dame du Mont Carmel, non è un caso. Cinque anni fa, con l’avanzata dei ribelli della Seleka, la caduta del presidente Francois Bozize e poi il contrattacco degli Anti-Balaka, le cosiddette milizie cristiane, aveva cercato riparo proprio dai frati carmelitani.
“Studiavo infermeria e sono stata costretta a lasciare” riprende, lo sguardo basso, quasi volesse cancellare anche i ricordi. Poi aggiunge, riprendendo coraggio: “I rapporti con i cristiani erano sempre stati buoni, la guerra è stata solo la conseguenza di una lotta di potere”.
La conferma la trovi poco distante, fuori dall’oleificio dove sono accatastati i caschi di datteri, nel palmeto nato con l’arrivo dei carmelitani. Padre Federico Trinchero, origini piemontesi, è stato testimone dell’ultimo conflitto. “Khididiatou, suo marito e la sua famiglia – racconta – li ho conosciuti quando abbiamo accolto prima 5mila, poi 10mila sfollati”. L’emergenza, in questa missione al confine con il Congo, dove il fiume M’Poko si getta nell’Oubangui, è rientrata. Nel 2017, dopo la fine dei raid delle milizie, la maggior parte delle famiglie ha lasciato il Carmel. Oggi, però, in molti ritornano. Prendete Khididiatou: è uno dei 500 beneficiari diretti di un programma di formazione che intende favorire l’inserimento socio-economico dei giovani colpiti dal conflitto. Lei ha scelto l’avicoltura, altri l’allevamento delle mucche, l’orticoltura o le produzioni legate all’olio di palma.
“Abbiamo suddiviso i beneficiari in 20 gruppi di specializzazione” spiega Janusz Czerniejewski, consulente della Fao – il Fondo Onu per l’Alimentazione e l’agricoltura – che coordina il progetto. “La speranza è che a gennaio, dopo la prima fase di formazione, sia già possibile selezionare 25 start up in grado di garantire sussistenza e autonomia alle comunità più vulnerabili”. Al programma sta contribuendo l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), che ha offerto uno stanziamento iniziale di due milioni di euro. Un seme dal quale nascerà una pianta, secondo Czerniejewski: “In settimana riceverò i delegati della fondazione di Mohammad Yunus, il premio Nobel delle ‘banche dei poveri’, che ci sostiene e vuole vedere i risultati”.
 
L’idea è che questa iniziativa, gestita in collaborazione con l’ong italiana Coopi, possa essere replicata in altre zone della Repubblica Centrafricana. A girare nel palmeto c’è da crederci. Accanto all’oleificio, dove 25 studentesse confezionano panetti di sapone a base di olio di palma, c’è la stalla con le mucche dalle corna arcuate dove si tengono corsi pratici. Poco più in là una fabbrica di mattoni, realizzati con un impasto di sabbia, argilla e cemento, a crudo, da montare a incastro. Infine gli edifici dell’Ecole Agricole, realizzati con fondi dell’8 per mille della Conferenza episcopale italiana. Già a ottobre, un centinaio di studenti potrebbe iniziare il primo triennio. “Speriamo di recuperare tanti giovani che hanno dovuto abbandonare gli studi, sono stati profughi al Carmel e sembrano ancora senza prospettive” dice padre Trinchero: “La strada della formazione e del lavoro, che consenta di comprarsi una casa e di prendersi cura di una famiglia, è un antidoto contro la guerra più efficace di tutti gli accordi di pace che si potranno mai firmare”.






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